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Di che Dio sei? (seconda parte)
di Giovanni Leonardi - 16/09/2005
 

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5) Ogni discorso su Dio distingue tra la sua volontà assoluta e quella relativa. Anche quando qualcosa è comandato da Dio, questo non significa che esprima la sua perfetta volontà. Per quanto strano possa sembrare a prima vista, Dio non ha sempre potuto esprimere la sua volontà come avrebbe desiderato. Un esempio, offerto da Gesù stesso, è quello della normativa sul divorzio contenuta nell'Antico Testamento (cfr. Dt 24:1; Mt 19:1-8). Gesù supera quella normativa in base a un principio contenuto nella stessa legge, in cui l'uomo e la donna sono considerati, in virtù del loro matrimonio (cfr. Gn 2:24), come una stessa carne che l'uomo non può dividere. Di fronte a un caso del genere, si potrebbe pensare che Gesù distingua nella legge parti che vengono da Dio e parti che sono semplicemente umane. Ma questo non è quello che Gesù dice. Egli non nega affatto l'implicazione di Dio in quella legge. Se ne parla attribuendola a Mosè, ciò avviene perché sta rispondendo in base alla formulazione della domanda dei farisei: "Perché Mosè comandò…?". Ora, come non si può attribuire ai farisei l'idea che Mosè avesse scritto quella legge di testa sua, allo stesso modo non si può attribuire quest'idea neppure a Gesù. I farisei potevano parlare di Mosè come scrittore della legge perché, come essi sapevano, egli non aveva fatto altro che scrivere la legge che "l'Eterno aveva data a Israele" (Ne 8:1). Quindi, dire legge di Mosè o legge di Dio era per loro la stessa cosa. Questo anche vale per Gesù, come si capisce leggendo le sue parole in base al suo quadro di riferimento culturale. Si ricordi che all'epoca di Gesù si faceva di tutto per evitare di pronunciare il nome di Dio. Per questo si parlava facilmente di regno dei cieli al posto di regno di Dio, e di legge di Mosè al posto di legge di Dio. L'equivalenza delle varie espressioni è chiaramente indicata da un testo come 1 Corinzi 9:9: "Difatti, nella legge di Mosè è scritto: "Non mettere la museruola al bue che trebbia il grano". Forse che Dio si dà pensiero dei buoi?".

Si vede chiaramente come la legge di Mosè e la volontà di Dio siano espressioni equivalenti. Come comprendere allora quella legge sul divorzio, se essa è ispirata da Dio e tuttavia è superata da Cristo in base ad altri elementi della stessa legge? Gesù stesso lo spiega: Mosè (da parte di Dio) vi ha dato quella legge "per la durezza del vostro cuore ma da principio non era così". Gesù distingue chiaramente tra due momenti della rivelazione della volontà di Dio. C'è un momento, in Eden, prima del peccato, in cui l'uomo vive in perfetta aderenza al progetto di Dio e in cui Dio può esprimere la sua volontà in modo assoluto. E c'è un altro momento, dopo il peccato, al Sinai, in cui la durezza del cuore dell'uomo non consente a Dio di esprimere la sua volontà in modo assoluto. In tale contesto di corruzione morale, Dio può esprimere la sua volontà di bene in modo relativo e imperfetto, in attesa che la grazia riconduca l'umanità, come avviene con Cristo, a un nuovo e migliore rapporto con il suo Creatore. Quando consideriamo il contenuto della legge di Mosè, scopriamo facilmente somiglianze (e differenze) con le leggi e i costumi degli altri popoli del vicino Oriente antico. Questo non significa che la legge sia solo il frutto di un'assimilazione culturale da parte di Israele. Significa soltanto, rispettando il principio dell'ispirazione, che Dio ha interagito con il suo popolo, tenendo conto del quadro storico-culturale in cui Israele viveva. Dio ha dato quelle leggi, e tuttavia esse non esprimono la perfezione della legge come Dio avrebbe voluto darla. Questo significa che non possiamo dedurre l'immagine di Dio osservando soltanto la legge di Mosè così com'è, senza una lettura critica. Se vogliamo vedere l'immagine perfetta di Dio, dobbiamo tornare all'Eden, e non rimanere soltanto ai piedi del Sinai. Eppure, una volta tornati all'Eden, possiamo guardare alla legge del Sinai senza disprezzo, vedendovi quello che di Dio veramente c'è: una misericordia immensa che limita la perfetta manifestazione della sua gloria e santità per rendersi accessibile al suo popolo, schiavo del peccato, ed educarlo a un'esperienza migliore. Anche la legge di Mosè, con tutte le sue imperfezioni e la violenza che a volte esprime, trasmette al cuore dei figli di Dio pensieri di bontà, pazienza, desiderio di accoglienza e di salvezza. Questo principio che stiamo delineando si applica non solo alla legge ma a tutta la rivelazione di Dio che vorrebbe salvare tutti gli uomini, ma pure potrà salvarne solo alcuni mentre dovrà punirne molti. L'Eterno avrebbe voluto proteggere il suo popolo solo attraverso la sua grazia, eppure ha dovuto spesse volte assisterlo anche nelle sue guerre. 

6) Ogni discorso su Dio deve accettare il fatto che l'Iddio di cui la Bibbia ci parla è l'Iddio della storia. L'Iddio che conosciamo attraverso le Scritture non è il dio dei filosofi, come diceva Pascal, ma l'Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Non è, cioè, un dio etereo che risponde a criteri astratti di logica e di morale ma l'Iddio della concretezza, che si immerge nella storia dell'uomo e la vive in prima persona, con tutto ciò che questo comporta. Questo significa che non possiamo rifiutare ciò che le Scritture ci dicono delle azioni di Dio nella storia, anche se questa non è la storia che Dio avrebbe voluto, ma come di fatto si è realizzata.

La storia non segue linee uniformi; essa è spesso contraddittoria, complessa, ingarbugliata. In essa la definizione del bene e del male diventa molto spesso una questione difficile da definire in base a criteri astratti e atemporali. In questa storia noi vediamo Dio che soffre, si arrabbia, protesta, invoca, giudica, punisce, ferisce, cura, ama, salva. Voler creare un'uniformità artificiosa nelle azioni di Dio, rifiutando tutto ciò che non corrisponde ai nostri criteri su ciò che Dio può fare e non fare, significa innalzarci a giudici di Dio, e essere filosofi di Dio più che suoi figli. Geremia dice che Dio stabilisce i suoi profeti "sulle nazioni e sopra i regni, per sradicare, per demolire, per abbattere, per distruggere, per costruire e per piantare" (Ger 1:10). Negare un aspetto dell'azione di Dio, come dicevamo in rapporto all'episodio del censimento di Davide, significa togliere credibilità anche a ciò che vorremmo conservare.

Un esempio di come Dio si sia, a volte, drammaticamente inserito nella storia, è dato dal suo coinvolgimento in alcune guerre di Israele. Una lettura onesta della Bibbia, che non si fondi sulla presenza di qualche espressione occasionale, ma sulla sostanza degli avvenimenti e del messaggio dei profeti, non può negare questo coinvolgimento. E tuttavia questo non significa che Dio sia un dio della guerra. La complessità della storia richiede da Dio atteggiamenti complessi; ma, se vogliamo cogliere il suo reale atteggiamento sulla guerra, dobbiamo andare al cuore di Dio. Scopriremo allora: che Dio ha sempre rifiutato una gestione militaristica della storia del suo popolo; che, pure quando concede una legge sulla guerra, pone al di sopra di essa le opere della pace (Dt 20:5-8; Gdc 7:2 ss); che rifiuta a Davide il privilegio di costruire il tempio perché aveva combattuto molte guerre (1 Cr 22:8); che il suo sogno, espresso attraverso i profeti, era quello di arrivare un giorno a trasformare in vomeri d'aratro le spade dei popoli (Is 2:4); che, quando con Cristo ha potuto esprimere se stesso pienamente, ha dato un insegnamento di totale non violenza (Mt 5:38-47) e ha gettato le fondamenta del suo regno, non attraverso la distruzione dei suoi nemici, ma attraverso il sacrificio di sé sulla croce (cfr. Mt 26:52,53; Gv 6:15). 

7) Ogni discorso su Dio riconosce la sua signoria sulla storia e sulla nostra vita. Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio Padre nostro. L'immagine trasmette affetto, sicurezza. Ma non bisogna neppure dimenticare che un padre, chiunque egli sia, proprio perché è tale, deve assumersi anche delle responsabilità dolorose. L'amore di un padre può essere, a volte, sofferto e può far soffrire: "Il Signore riprende colui che egli ama, come un padre il figlio che gradisce" (Prv 3:12). C'è anche da dire che alcuni figli si sono trasformati in nemici violenti e oppressori. Di fronte alle loro malefatte, l'amore di un padre deve prendere posizione e giudicare tra l'oppresso e l'oppressore… per salvare e per reprimere. Un amore che fosse solo spettatore dei drammi sarebbe solo ignavia e vigliaccheria, e un padre non può essere così. Per questo motivo, la Bibbia ci dice che Dio è anche re, giudice, signore, chiamato a salvare e a distruggere; e ce lo dice anche di quello stesso Gesù che salì sulla croce per la salvezza degli uomini ma che verrà un giorno per punire i suoi nemici con la spada della sua parola (cfr. Ap 19:15). Questo è vero in rapporto al giudizio e alla punizione della fine dei tempi, ma è vero anche per tutto il corso della storia, per tutti i momenti in cui Dio ha deciso di intervenire, non solo per salvare, ma anche per punire.

Il diluvio, Sodoma e Gomorra, la distruzione dei cananei, la caduta di Samaria e di Gerusalemme, la sconfitta di Babilonia… sono tutti giudizi di un Dio che non rinuncia totalmente alla sua sovranità e alla sua responsabilità. A volte questi interventi di Dio nella storia si attuano in modo indiretto, semplicemente lasciando manifestare le conseguenze degli atteggiamenti umani; a volte, attraverso un coinvolgimento più diretto, come quando comanda a Israele di attuare l'herem (sterminio ndr) sui cananei, come quando manda il diluvio sulla terra, o fa morire istantaneamente Anania e Saffira per aver mentito allo Spirito. Gli interventi punitivi di Dio sono, nella Bibbia, talmente legati alla sua salvezza che negare gli uni significa molte volte negare automaticamente l'altra.

Per fare un esempio, se si nega il coinvolgimento di Dio nello sterminio dei cananei, si deve ugualmente negare il coinvolgimento di Dio nella promessa di una terra ad Abramo e al suo popolo; e, se si nega questa promessa, cade gran parte del senso religioso dell'esperienza israelita e della storia biblica. Proprio quest'ultimo esempio è particolarmente tragico e ci turba profondamente, non solo per il giudizio di Dio in sé, ma per il fatto che Dio chiama un popolo, il suo popolo, a essere l'esecutore della sua condanna. Se questo non ci turbasse, vorrebbe dire che il nostro cuore è rimasto insensibile alla presenza di Cristo. Io direi che abbiamo il dovere di turbarci perché ci troviamo di fronte a un fatto sconvolgente. E tuttavia, indubbiamente, non abbiamo il diritto di negarlo. Di fronte a quest'episodio abbiamo, e dobbiamo avere, paura che esso possa diventare modello per altri giudizi, altre condanne, altre guerre. E, nondimeno, una lettura attenta dei fatti, nella prospettiva globale della rivelazione, ci aiuterà a non cadere nel tranello della violenza. Penso ad almeno tre motivi.

Il primo deriva dalla consapevolezza che non tutto quello che Dio può fare legittimamente è legittimo fare per l'uomo: Dio è il Signore, noi siamo solo servi; Dio è il Giudice, noi non dobbiamo giudicare; Dio può salvare e perdere, noi possiamo essere soltanto testimoni della sua grazia e della sua legge.

Il secondo deriva dalle ragioni stesse che la Bibbia dà per quella guerra: essa è comandata da Dio e per dei motivi specifici, ed esclude quindi ogni altra guerra e violenza.

Il terzo motivo consiste nel fatto che Dio stesso, in Cristo, ha totalmente superato le ragioni di quella guerra - necessaria anche per dare una terra al suo popolo - staccando decisamente il concetto di chiesa da quello della territorialità, e chiamando il suo popolo a essere testimone di un regno che è quello dei cuori e che non è di questo mondo. Esso è il regno dell'amore e può essere conquistato e testimoniato soltanto attraverso le vie dell'amore e della non violenza. Rimane, certo, il turbamento per quello che quella conquista ha significato in termini di violenza e di sofferenza. Il teologo cristiano non potrà eliminare il turbamento, ma può aiutare a incanalarlo lungo vie di maggiore comprensione. Si può considerare la lunga pazienza di Dio verso i cananei prima della conquista (cfr. Gn 15:16). Si può osservare, come dice Ellen G. White, che, se Israele avesse avuto più fiducia in Dio, questi avrebbe conquistato Canaan per il suo popolo come aveva già fatto con Gerico, riducendo al minimo il coinvolgimento diretto del popolo. Si può capire che il giudizio di Dio si iscrive anche in un processo storico in cui Israele deve conquistare una terra che non è certo disabitata. Si può anche stare in silenzio e aspettare che Iddio riveli il senso nascosto delle cose. 

8) Ogni discorso su Dio trova la sua norma in Cristo. Come cristiani avventisti, condividiamo con la stragrande maggioranza della cristianità la convinzione che la massima rivelazione di Dio si sia realizzata attraverso la persona, le azioni e gli insegnamenti di Cristo. Questo significa che è a Cristo che guarderemo per scoprire ciò che Dio è veramente. Gesù stesso ce l'ha insegnato quando rispose a Filippo che gli chiedeva di mostragli il Padre: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre; come mai tu dici: "Mostraci il Padre"?" (Gv 14:9). Dobbiamo soltanto stare attenti a non crearci un Gesù astorico e uniforme, rispondente soltanto a criteri di tipo emozionali, affettivi e superficiali.

Il Gesù di cui parliamo e che troviamo nei vangeli è difficilmente assimilabile alle icone del cristianesimo ortodosso. Egli è invece totalmente coerente con la visione biblica della storia in cui s'inserisce per lanciarla verso il compimento finale del regno di Dio. Quello stesso Gesù che predica consolazione agli umili e agli oppressi annuncia anche il fuoco eterno ai violenti e agli ipocriti. Lo stesso Gesù che dà la sua vita sulla croce, invocando il perdono per i suoi assassini, è colui che aveva seguito Israele fuori dall'Egitto (1 Cor 10:4), che era apparso a Giosuè agli inizi della conquista di Canaan per rincuorarlo (Gs 5:13-15), e che apparirà un giorno come il Re dei re e il Signore dei signori, come il conquistatore e il vendicatore di cui ci parla l'Apocalisse (Ap 6:9,10; 19:11-16).

In altri termini, ogni discorso su Dio tramite Cristo dovrà necessariamente tenere conto di tutti gli altri elementi che abbiamo delineato precedentemente, anch'essi testimonianza di ciò che Cristo è, e che dal Cristo incarnato ricevono nuova luce per essere valutati più correttamente. 

Conclusione 

Io non sto proponendo qui una mia immagine di Dio. Ho soltanto presentato alcuni paletti che credo essenziali e insuperabili per qualsiasi discorso sull'immagine di Dio. Non propongo una mia immagine di lui perché non avrei lo spazio per farlo e non ne avrei neppure il coraggio. Non credo, infatti, che esista "una" immagine di Dio che possa onorare tutto ciò che egli è. Dio è una realtà infinitamente complessa che si è rivelata a noi attraverso spazi limitati sufficienti a farci capire che Dio può essere amato, onorato, adorato, servito ma sempre con un atteggiamento di umiltà, nella consapevolezza che quello che possiamo dire di lui è soltanto una piccola parte di quello che egli è.

La Bibbia stessa testimonia della complessità di Dio, fornendoci tante immagini attraverso le quali, di volta in volta e a seconda delle circostanze, ci è dato quell'aiuto di cui abbiamo bisogno. Talvolta abbiamo necessità di sottolineare la sua affettuosità e a volte la sua sovranità; altre volte il suo amore e la potenza della sua grazia e della sua determinazione; altre volte la sua umiltà e la sua fierezza. Guai ad avere un Padre che sia solo amore senza forza, o che sia forte senza amarci! Guai ad avere un Re che governi senza grazia o che non governi affatto! Guai ad avere un giudice senza misericordia, o che in nome della misericordia dimentichi la verità e la responsabilità! Della complessità di Dio parla egli stesso quando si presenta a Mosè dicendo di essere "Il Signore! il Signore! il Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l'iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente…" (Es 34:6,7). Di fronte a quest'autorivelazione, Mosè semplicemente "s'inchinò fino a terra e adorò" (v. 8).

Gesù ha meravigliosamente sintetizzato la complessità di Dio, invitandoci a chiamarlo "Padre nostro che sei nei cieli". Cioè, un Padre, o meglio ancora un Papà che è nostro, ci è vicino, ci ama, ci conforta, ci rassicura. Ma anche un Papà che è nei cieli, che, cioè, ci trascende, è in alto, supremo, santo, dominatore, irraggiungibile. Il linguaggio e il discorso biblico non sono semplici e a volte ci pongono problemi che turbano. Compito di una sana teologia non è quello di eliminare questi problemi semplificando ciò che è complesso o cancellando ciò che è difficile. La teologia deve solo aiutare a trovare le chiavi di lettura perché il complesso diventi comprensibile e l'oscuro si illumini. Ma bisogna sempre rispettare la realtà dei dati, se vogliamo che Dio rimanga l'Iddio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e non diventi il dio dei filosofi, dei sociologi o degli psicologi. 

 

Articolo tratto da Il Messaggero Avventista, febbraio 2003 

Giovanni Leonardi è pastore della Chiesa Cristiana Avventista a Malta


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