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Di che Dio sei? (prima parte)
di Giovanni Leonardi - 15/07/2005
 

L'immagine che ci facciamo del Signore non può prescindere dall'immagine che Egli stesso ha voluto rivelarci. Su quali basi possiamo sorreggere le nostre convinzioni?

Nell'esperienza religiosa, tre domande rivestono un'importanza particolare: Chi siamo noi? Chi è Dio? Che tipo di rapporto possiamo stabilire con lui? È evidente che la risposta alla terza domanda dipende da quelle che diamo alle altre due. È anche evidente che esistano molti fraintendimenti su questi tre aspetti dell'esperienza religiosa, a cominciare dal modo in cui ci si immagina Dio. È quindi doveroso, ogni tanto, interrogarsi sul modo in cui lo capiamo. Vorrei dare un mio contributo, offrendo alcuni criteri metodologici su come condurre una tale riflessione.

1) Ogni discorso su Dio deve essere fondato sulla sua autorivelazione. Il primo fatto da affermare è che, come cristiani avventisti, noi crediamo che l'esistenza e la potenza di Dio siano manifestate anche attraverso la natura, osservata attraverso la ragione (Rm 1:19,20; Gb 12:7-9). Ma crediamo anche che la natura corrotta dal peccato e i limiti oggettivi della ragione, anche di quella più sviluppata, non possano dirci molto sulla persona di Dio, sul suo carattere, sulla sua volontà e sui suoi progetti. Dio è una Persona, e una persona non la si conosce attraverso un ragionamento ma attraverso un incontro in cui l'una si apre all'altra. La fede cristiana non è fondata su una filosofia ma su una rivelazione, e noi crediamo che la rivelazione di Dio ci sia stata offerta attraverso i profeti, gli apostoli e, soprattutto, dalla persona di Cristo. Tutto ciò noi ritroviamo nelle Sacre Scritture. Ogni discorso su Dio deve quindi trovare il suo inizio e il suo compimento nella Bibbia.

2) Ogni discorso su Dio deve rispettare il fatto che tutte le Scritture sono ispirate. Noi crediamo che "ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3:16,17) e che quindi ogni nostro concetto di Dio deve tenere conto, senza discriminazione alcuna, di tutto ciò che la Bibbia ci dice su di lui. Noi non discriminiamo tra Scritture ispirate o no, come faceva nel II sec. d.C. l'eresiarca Marcione che rifiutava tutto l'Antico Testamento e buona parte del Nuovo, in base al suo presupposto teologico che Dio è spirito e grazia e che quindi non può essere implicato in attività materiali come la creazione del mondo o in attività di tipo legali, viste come contrarie alla grazia.

La nostra visione dell'ispirazione non ci consente neppure di accettare visioni di tipo neo-ortodosse, per le quali la Scrittura sarebbe ispirata da Dio solo nella misura in cui corrisponderebbe al criterio supremo della rivelazione dell'amore e della grazia manifestate da Cristo, mentre tutto il resto sarebbe soltanto ragionamento umano intorno a Dio. Noi non crediamo neppure che si possa ridurre la portata dell'ispirazione traducendo 2 Timoteo 3:16, come alcuni fanno, con "ogni Scrittura ispirata da Dio è utile…" quasi che esistessero Scritture non ispirate che non sarebbero affatto utili. A parte il fatto che una concezione di questo tipo farebbe dell'uomo il giudice di ciò che è ispirato, aprendo le porte a ogni immaginabile arbitrio, ci sono sufficienti elementi contestuali, storici e sintattici per respingere tale traduzione. La dottrina biblica dell'ispirazione e dell'utilità di tutte le Scritture significa che in ogni insegnamento e in ogni storia riportata dalle Scritture, anche in quelle più problematiche, dovremo vedere un'intenzione positiva, un valore da cui attingere guida e consolazione.

3) Ogni discorso su Dio deve comprendere la componente umana della Bibbia. Credere che la Bibbia sia ispirata da Dio non significa credere in un'ispirazione verbale. Crediamo invece che Dio abbia onorato i suoi servitori, affidando loro un tesoro prezioso che pure poteva essere contenuto e trasportato in umili vasi di terra (2 Cor 4:7). Crediamo che gli uomini ispirati abbiano trasmesso il messaggio divino ricevuto usando gli strumenti linguistici e culturali di cui disponevano e, come dice Ellen G. White, niente che sia umano è perfetto. Dio stesso, nella sua perfezione, nel momento in cui vuole comunicare con noi deve usare il nostro linguaggio, se vuole farsi capire. Questo significa che, se vogliamo rispettare la natura delle Scritture, dobbiamo sempre tenere conto di questa loro ambivalenza divina e umana, senza poterle separare totalmente ma anche senza doverle confondere necessariamente.

Il fatto che tutta la Bibbia sia ispirata non significa che ogni suo modo di dire esprima il modo di dire di Dio. E tuttavia bisogna stare attenti a non partire da questo fatto per svalutare l'importanza e la funzione della Scrittura. Come dice Ellen G. White, "coloro che pensano di eliminare le presunte difficoltà delle Scritture, distinguendo, con le loro regole imperfette, tra ciò che è ispirato e ciò che non lo è, farebbero meglio a nascondersi la faccia, come Elia quando la pur sommessa voce di Dio gli parlò. Essi si trovano infatti alla presenza di Dio e dei santi angeli che per secoli hanno comunicato agli uomini luce e conoscenza, dicendo loro ciò che dovevano e non dovevano fare, aprendo davanti a loro scene di straordinario interesse, tappa dopo tappa, attraverso simboli, segni e illustrazioni. ... Quando uomini, con la loro capacità limitata di giudizio, pensano che sia necessario esaminare le Scritture per definire ciò che è ispirato e ciò che non lo è, allora è come se essi si mettessero di fronte a Gesù per mostrargli una via migliore di quella per la quale egli vorrebbe guidarli".

Poiché il linguaggio non è fatto solo di singole parole ma anche di modi dire, di immagini, di concettualizzazioni della realtà, possiamo estendere quanto appena detto a vari aspetti della Bibbia. In ogni pagina della Scrittura dobbiamo cogliere, attraverso il linguaggio imperfetto dell'uomo, la sostanza del messaggio divino. Un esempio classico e semplice da capire è quello delle cateratte dei cieli che si aprono per far scendere il diluvio sulla terra. È evidente che il termine cateratte è l'espressione del linguaggio e della cultura umana, e noi non riteniamo che credere nelle cateratte debba far parte della nostra fede, ma se si volesse negare la sostanza del diluvio come atto del giudizio di Dio sulla violenza dell'umanità, allora non metteremmo in discussione il linguaggio ma lo scopo stesso del testo: negheremmo, cioè, l'ispirazione.

Questo significa che non siamo necessariamente obbligati ad attribuire alla realtà di Dio gli antropomorfismi usati per descriverlo quali la barba e i capelli bianchi (Dn 7:9) perché possiamo pensare che essi facciano parte degli strumenti umani per descrivere la realtà di Dio. Ma è evidente che tale immagine, anche se non è da prendere alla lettera, abbia un messaggio reale da comunicarci, e cioè che Dio è l'Antico dei giorni, pieno di saggezza e di autorità e non un giovincello inesperto di cui non ci si possa fidare.

Allo stesso modo, possiamo chiederci se espressioni quali "uno spirito cattivo suscitato dall'Eterno" (1 Sam 16:14, versione riveduta) vogliano veramente dirci che fu Dio a mandare uno tale spirito perché turbasse Saul, o se non ci troviamo di fronte a un modo di esprimere la realtà influenzata dalla cultura e dall'atteggiamento psicologico dell'epoca. Certamente, l'idea che Dio possa mandare volutamente uno spirito cattivo a turbare qualcuno turba noi stessi. Non per questo dobbiamo automaticamente rifiutare il testo: dobbiamo semplicemente capirlo. Non sarebbe di molto aiuto scoprire che il testo originale ebraico non contiene il verbo "suscitare" ma la semplice proposizione "da parte di", in quanto Dio rimarrebbe ugualmente il responsabile del fatto. Un aiuto migliore può venirci invece dal capire che gli scrittori biblici antichi vivevano dentro i limiti di un orizzonte teso alla glorificazione di Dio come colui da cui tutto dipende. Avevano anche difficoltà a distinguere tra quelle che noi chiameremmo cause "prime" o "seconde". In tale quadro mentale, tutto ciò che accadeva era, in qualche modo, rapportato a Dio senza preoccuparsi molto di definire in che modo ciò avvenisse. Per cui, se Saul soffriva di qualche problema psichico, l'ebreo diceva semplicemente che Dio gli aveva mandato il turbamento. Se Dio invitava faraone a liberare Israele e se egli resisteva indurendo il suo cuore, l'ebreo poteva tranquillamente dire che era stato Dio ad avergli indurito il cuore (cfr. Es 10:20) poiché, senza l'intervento di Dio, faraone non avrebbe avuto motivo di indurirsi. Questo modo di esprimersi creava certamente possibilità di equivoci, e gli scrittori biblici successivi, in un contesto differente e culturalmente e psicologicamente più avanzato, sentirono il bisogno di esprimersi diversamente. Si può notare questo sviluppo paragonando 2 Samuele 24:1, in cui si dice che Dio "incitò Davide contro il popolo" spingendolo a fare un censimento per il quale saranno poi puniti, con 1 Cronache 21:1 in cui, in rapporto allo stesso episodio, si dice che "Satana si levò contro Israele e incitò Davide".

La consapevolezza di questi processi linguistici ci deve rendere prudenti nell'attribuire a Dio atteggiamenti e azioni che potrebbero non dipendere da lui o dipenderne solo indirettamente. E, tuttavia, bisogna ancora una volta stare attenti a non negare la veridicità dei fatti narrati e l'implicazione di Dio, quando il testo voglia dire ciò non in modo formale ma sostanziale. Per esempio, se nella storia dell'episodio appena citato il fatto che Dio abbia spinto Davide a fare il censimento può essere attribuito al linguaggio e alla psicologia umana, non così si può dire della storia in sé e della punizione che ne seguì, perché questo significherebbe negare la veridicità di tutta la storia in cui Dio parla al re Davide attraverso un profeta menzionato per nome (Gad) che gli annuncia la punizione ancora prima che avvenga, e gli porta poi l'annuncio della misericordia e del perdono di Dio (cfr. 2 Sam 24:10-25). La storia ci pone molti problemi di tipo teologico e morale, perché ci presenta un Dio che punisce nonostante il pentimento, e punisce il popolo per colpa del peccato del re. E tuttavia il teologo cristiano che crede nell'ispirazione della Bibbia, cioè che crede che la Bibbia ci racconti il vero su Dio e su di noi, non risolverà il problema negando l'ispirazione e la verità del testo, ma cercando di capire l'azione di Dio, che il testo racconta in base al quadro culturale e psicologico dell'epoca con il quale Dio reagisce nella concretezza della storia.

Concetti come quelli della "personalità corporativa", il ricordo di come Israele sia giunto alla monarchia rinunciando alla propria democrazia e libertà in nome del potere (cfr. 1 Sam 8:5-7,19,20), il significato che fare e accettare un censimento aveva a quel tempo potrebbero aiutarci a capire il senso di quell'intervento di Dio senza scandalizzarcene troppo, anche se ciò non ci impedirà di soffrirne, come anche Dio avrà fatto (cfr. Lc 19:41). Può essere interessante, per una lettura cristiana di questo episodio, notare come l'Iddio che punisce Davide e il suo popolo per il censimento fatto e che poi perdona e salva, sia qui rappresentato dall' "angelo di Yahveh", cioè Gesù stesso (cfr. 2 Sam 24:16). E può essere anche interessante notare che Cristo appare a Davide sull'aia di Arauna, sul monte Morià (cfr. 2 Cr 3:1), dove la vita di Isacco era stata salvata grazie al capro provveduto da Dio (cfr. Gn 22:1-14), e dove più tardi Salomone costruirà il tempio, segno della presenza e della grazia salvifica di Dio tra il suo popolo. È evidente che rifiutare l'intervento punitivo di Dio in questa storia significa negare anche la sua azione misericordiosa e salvifica, e non è certamente in questo modo che possiamo onorare l'immagine di Dio.

In sintesi, direi che dobbiamo distinguere il linguaggio dal messaggio, anche se l'uno non può esistere senza l'altro; ma non possiamo affatto parlare di Dio in modo contrario a ciò che gli scrittori ispirati intenzionalmente ci dicono di lui.

4) Ogni discorso su Dio deve distinguere il concetto dell'ispirazione delle Scritture dal concetto di ispirazione dei fatti narrati. Tutta la Scrittura è ispirata ma non tutto quello che la Scrittura dice è volontà di Dio. Proprio perché la Bibbia è storia, anche se Dio interviene in questa storia, questo non vuol dire che tutto quello che accade sia volontà di Dio o desiderato da Dio. Allo stesso modo non tutto quello che la Bibbia ci dice, raccontandoci questa storia, è volontà di Dio o l'espressione del suo desiderio. Per esempio, la Bibbia ci racconta l'incesto delle figlie di Lot, ma questo non significa che la Bibbia raccomandi l'incesto. Il fatto che l'Antico Testamento racconti delle tante guerre di Israele non significa necessariamente che esse siano state volute da Dio. La Bibbia è ispirata nel raccontarci il fatto, ma questo non dipende necessariamente da Dio. Dobbiamo quindi leggere la storia biblica cogliendo in essa ciò che viene da Dio e ciò che viene dall'uomo. In genere, il modo in cui le storie sono raccontate ci aiuta a distinguere le due diverse realtà.

...segue seconda parte

 

Articolo tratto da Il Messaggero Avventista, febbraio 2003

Giovanni Leonardi è pastore della Chiesa Cristiana Avventista a Malta

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