Elogio
della filosofia
Di Giorgio
Masiero
Raffaello
(1508), La scuola di Atene
Che
cos’è la filosofia?
.
La
mia risposta è: “La ricerca della conoscenza del reale,
continuamente motivata dallo stupore, realizzata con il metodo
dialettico, dove il reale è considerato nella sua interezza”.
.
Mi
rendo conto che questa (quadruplice) definizione può apparire
ai lettori inusuale, sovraccarica,
forse anche pedante; però ho pesato le parole ad una ad una e,
a mio modo di vedere, non ce n’è una in più, né
una in meno. Analizziamone il significato.
1.
Ricerca della conoscenza del reale. La filosofia non è
contemplazione immediata di ciò che ci appare davanti (di ciò
che esiste, è reale): nessun ente offre la conoscenza di sé
gratuitamente. Il filosofo sa che la verità dell’essere,
nel suo ricco manifestarsi nelle cose del mondo, può risultare
velata e che quindi va ricercata con pazienza e con metodo[i].
Il filosofo, con i suoi paradossi, mira proprio a questo: a mostrare
come ciò che in apparenza sembra semplice e scontato, ad un
esame più profondo risulti complesso ed anche talvolta
contraddittorio. In latino la parola “verità”
deriva da “verum”, che significa “il fatto reale”:
per gli antichi romani, quindi, la verità sembrerebbe darsi
dalla naturale coincidenza del discorso con il fatto. Nei greci,
invece, la parola verità si esprime con “a-letheia”
e significa “disvelamento di ciò che è nascosto”:
i greci sembrano dirci che non è sempre facile far coincidere
ciò che si dice o si pensa riguardo a qualcosa con ciò
che questa cosa è. L’essere autentico si copre di
molteplici, talora ingannatorie, sembianze e va scoperto. Forse è
per tale prudenza innata nel linguaggio ionico che la filosofia
nacque in Grecia e che, anche dopo che la civiltà greca
“occupò” Roma, non ci sono stati filosofi romani
originali.
2.
Ricerca della verità motivata continuamente dallo
stupore. Nel dialogo platonico “Teeteto”, Socrate
richiama il mito di Iride, dea della conoscenza e figlia di Taumante,
il dio dello stupore, per fondare in questo peculiare sentimento
umano la filosofia: “Teeteto: ‘Sono straordinariamente
meravigliato di quel che sia l’apparirmi davanti di tutte
queste cose; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le
vertigini’. Socrate: ‘Amico mio, non mi pare
che Teodoro abbia giudicato male la tua natura. Ed è proprio
del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né
altro cominciamento ha il filosofo che questo; e chi disse che Iride
fu generata da Taumante (Colui che si stupisce) non sbagliò,
mi sembra, nella genealogia’”.
“Thauma”,
la parola greca per “stupore”, “sgomento”,
indica un alto grado di turbamento dell’anima: davanti ad un
evento inatteso e meraviglioso, in quel momento noi perdiamo la
consueta consapevolezza e siamo come pietrificati, abbiamo le
vertigini. Non si dà voglia di conoscenza, o
filosofia, senza passare attraverso quella passione che è lo
stupore. Questa è forse la primigenia sensazione provata
dall’autocoscienza ancora confusa d’un infante, il cui
primo logos, quando diverrà capace di minimamente articolare
una parola, sarà: perché? Poi, man
mano che la visione del mondo e della sua cornucopia si accresce, i
“perché” del bambino diventano sempre più
frequenti; e solo col passare degli anni (ed il sopraggiungere degli
affanni dello studio, del lavoro, della famiglia), nell’adulto
si diradano nell’assuefazione o scompaiono nella noia, salvo
riapparire eccezionalmente di fronte ad un fatto del tutto inatteso.
Il filosofo, invece, per sua fortuna, si affaccia alla finestra del
mondo sempre con gli occhi di un bambino: non si abitua mai allo
spettacolo del policromo multiforme apparirgli degli enti, né
si accontenta di contemplarlo, ma vuole conoscerne le cause; e ha
sete di sapere i fini che si proposero quelle cause; e perché
quei fini e non altri; … fino alla domanda più
fondamentale di tutte le domande: perché c’è
qualcosa in generale, piuttosto che niente?
“Non
si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è
sazio di udire” (Qohelet). Quando un filosofo finisce
di meravigliarsi, quando ha perduto la gioia dello stupore davanti
alla varietà cangiante delle manifestazioni dell’essere,
quando pensa di averne imbrigliata l’infinita ricchezza nel suo
“sistema filosofico”, allora non è più un
filosofo, ma è diventato un professore di filosofia, un
impiegato pubblico pagato dai contribuenti per comunicare ai giovani
studenti la sua “verità”, la quale non è la
realtà quotidianamente rivissuta nello stupore infantile, ma
la rappresentazione personalmente codificata della propria esperienza
ormai giunta al termine.
3.
Ricerca della verità attraverso la dialettica.
La molteplicità sempre presente nella storia di correnti
filosofiche contrapposte è per me la prova più evidente
dell’infinita ricchezza dell’essere, delle innumerevoli
prospettive da cui esso può venire ammirato e
dell’impossibilità della ragione umana a “comprenderlo”
interamente, afferrandolo e contenendolo dentro di sé. Non c’è
nessun grande filosofo, nemmeno tra i più lontani nei loro
“sistemi” dalla mia visione del mondo[ii],
in cui io non abbia trovato intuizioni geniali perennemente vere. La
molteplicità del pensiero filosofico non è una
manifestazione della miseria della filosofia, ma della ricchezza
dell’essere.
Invece,
G. W. Leibniz (1646-1716), che
oltre a molte altre cose era un matematico ed un filosofo, si doleva
(come tutti coloro che anche oggi, per questo motivo, antepongono la
scienza naturale alla filosofia…) che tra i filosofi non
vigesse la stessa concordia che tra i matematici ed immaginò
di risolvere la questione
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la creazione di un linguaggio universale (“Characteristica
universalis”) che, come quello della logica e della
matematica, fosse libero da omonimi, sinonimi ed altre possibilità
di fraintendimento del significato dei termini; e
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<!--[endif]-->con
la costituzione di un gruppo di regole sintattiche di composizione e
deduzione delle frasi (“Calculus ratiocinator”)
che, ancora come accade in logica ed in matematica, servisse a
trasformare il ragionamento filosofico in calcolo e ad evitare liti
verbali inutili.
Una
volta costruiti l’una e l’altro, scrisse
il pensatore tedesco in un famoso passo, “non ci sarà
più maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto
ce ne sia tra due persone che fanno un calcolo aritmetico. Sarà
sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano
a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un
amico): calcoliamo!” (“Scritti di Logica”).
Negli
anni trenta del secolo scorso, il più grande logico di tutti i
tempi insieme ad Aristotele, Kurt Gödel, dimostrò un
teorema della logica formale per il quale il calcolo proposizionale
del prim’ordine (dove i quantificatori[iii] lavorano
sugli elementi del sistema di riferimento, ma non sulle sue parti) è
consistente e completo: ciò significa che un discorso composto
di proposizioni di questo semplice tipo è formalizzabile e
calcolabile, come un’espressione algebrica. E, pertanto, anche
eseguibile da un computer. Ma…, purtroppo per Leibniz, appena
si passi alla logica del second’ordine (che poi coincide col
linguaggio scientifico, per non dire del linguaggio parlato),
interviene un altro teorema più recente della logica formale a
dichiarare l’intraducibilità di quella proposizione in
un algoritmo eseguibile da un calcolatore.
L’ideale
di Leibniz è dunque un’utopia irrealizzabile nel
linguaggio parlato e nelle stesse scienze naturali.
Dovremmo
allora, in nome dell’unanimità e del leibniziano
ecumenismo del pensiero unico, rinunciare alla parola viva ed
immediata, quella che è coincisa con l’“evento
improvviso” (I. Tattersall) dell’apparizione del
simbolo nella specie terrestre Homo sapiens e si esprime ogni giorno
nella vita reale vissuta dagli umani? o sono comunque
possibili nel linguaggio parlato descrizioni del reale
tendenzialmente complete, organiche, profonde
e coerenti?
Certo,
come ci ha insegnato Aristotele, c’è
un logos raziocinante che analizza e classifica: esso appartiene
alle scienze naturali ed ha per risultato
una conoscenza specializzata, vale a dire: la conoscenza
di un ente da uno specifico punto d’osservazione.
La conoscenza che ci dà questo logos analitico risulta
tanto più precisa quanto più è specialistica,
come dire: più mi avvicino ad un oggetto da un punto di
osservazione, più questo si riduce nelle sue qualità
che riesco ad afferrare ad alcune poche, le “affezioni”
quantificabili (Galileo). Questo logos scientifico celebra nelle
applicazioni della tecnica moderna il suo maggiore trionfo.
Ma
c’è un altro logos, da
cui il precedente deriva ed è alla fine giudicato: è
il logos dialettico, il discorso sul processo del
pensiero, anzi il processo stesso del pensiero nella sua
immediatezza. Questo appartiene alla filosofia. L’esempio
più semplice di dialettica, che abbiamo appreso dai greci,
dalla lettura dei dialoghi di Socrate nei libri di Platone e da
Aristotele, è ogni autentica conversazione, di
un’anima con se stessa o tra due anime, nella quale per mezzo
delle parole la vita stessa si riversa come un fiume. Parla Socrate:
“Il pensare è un ragionamento che l’anima fa
con se stessa su ciò che ella viene esaminando. Bada, come un
ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l’anima,
quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la
quale conversa con se medesima, interrogando e rispondendo,
affermando e negando” (Platone, “Teeteto”;
evidenziazione mia).
La
dialettica è un pensare al ritmo di domande e risposte,
ipotesi e tesi, inspirazioni ed espirazioni, distruzioni e creazioni.
Nella dialettica ogni oggetto viene esaminato dai più diversi
punti di vista, per ogni argomentazione (“tesi”)
riguardante una prospettiva si considera anche la validità
dell’argomentazione opposta (“antitesi”), e poi si
fa “sintesi” degli opposti in una proposizione che non è
mai finale, ma punto di partenza di un ulteriore esame dialettico.
(La procedura dialettica si svolge nel botta e risposta anche di
commenti in questo blog, quando il dialogo è sincero e libero
da troll ed intrusioni OT…)
La
dialettica non è mai generata dallo sdoppiamento tra la realtà
e la parola, tra la vita ed il pensiero, come
accade sempre invece, necessariamente, nel logos analitico delle
scienze; ma è la capacità d’interpellare e
rispondere. Ancora Socrate: “E quello che sa interrogare
e rispondere non lo chiami dialettico?” (Platone,
“Cratilo”). Né la dialettica si riduce ad astratto
esercizio logico della ragione, ma sempre inerisce alla rivelazione
stessa, per mezzo della parola, della verità che è
vita. La dialettica è la ragione che mira a partecipare alle
infinite sfaccettature dell’essere. Nel “Fedro”
Platone assimila la dialettica a due procedimenti contrapposti ma
complementari: il primo, scrive Platone, è “abbracciare
in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma
ciò che è molteplice e disseminato affinché,
definendo ciascun aspetto, si attinga chiarezza intorno a ciò
di cui si intenda ogni volta insegnare”; l’altro
“consiste nella capacità di smembrare l’oggetto
in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne
alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio”.
La
dialettica è organizzazione logica dello stupore
dell’osservatore davanti alle cose.
4.
Conoscenza dell’essere nella sua interezza.
L’Universo (fisico-mentale-logico) non è una polvere di
sabbia, non è un insieme di monadi non interagenti; ma è
una struttura organica dove ogni ente, anche piccolo, è
connesso ed interdipendente con ogni altro, fosse più piccolo
ancora ed il più lontano da quello nello spazio ed il più
remoto nel tempo. Nelle scienze naturali, invece,l’avanzamento
non può prescindere dalla specializzazione che è
focalizzazione sull’oggetto isolato dai “disturbi
esterni”, e ciò per definizione del processo
pensante del logos analitico (anche se tra le diverse scienze oggi
s’invoca una maggiore interdisciplinarità rispetto alla
babele specialistica, perché ogni singola scienza ed ogni
tecnologia potrebbero trarre vantaggio dall’interazione
reciproca). La filosofia, al contrario, adotta un approccio olistico
verso le domande suscitate dall’essere, che invitano
l’osservatore estasiato a focalizzare l’attenzione non
sul singolo ente, ma sui processi e sulle profonde interconnessioni
tra più enti; ed evita la semplificazione (che è regola
nelle scienze naturali) di modellizzare la soluzione di un problema
complesso entro quegli schemi analitici che trascurano tutta una
serie di “qualità secondarie” (le “essenze”)
dell’ente[iv].
Quest’attività filosofica di collegamento ed
unificazione, che è l’aspetto precipuo della razionalità
umana, del “logos” (dal verbo greco “legein”:
legare, raggruppare, ridurre ad uno), viene perseguita nel suo metodo
dialettico: “La prova più importante se la natura di
qualcuno sia dialettica o meno consiste nella prova di tale capacità
di sentire non solo il molteplice nell’uno, ma anche, al
contrario, l’uno nel molteplice, la visione del molteplice come
della singolarità. […] Perché
chi è capace di una visione integrale è dialettico, e
chi non lo è, no” (Platone, Repubblica).
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