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ELOGIO ALLA FILOSOFIA
di Giorgio Masiero - 20/09/13 -
 

Elogio della filosofia

Di Giorgio Masiero

 

Raffaello (1508), La scuola di Atene

 

Che cos’è la filosofia?

 .

La mia risposta è: “La ricerca della conoscenza del reale, continuamente motivata dallo stupore, realizzata con il metodo dialettico, dove il reale è considerato nella sua interezza”.

 .

Mi rendo conto che questa (quadruplice) definizione può apparire ai lettori inusuale, sovraccarica, forse anche pedante; però ho pesato le parole ad una ad una e, a mio modo di vedere, non ce n’è una in più, né una in meno. Analizziamone il significato.

1. Ricerca della conoscenza del reale. La filosofia non è contemplazione immediata di ciò che ci appare davanti (di ciò che esiste, è reale): nessun ente offre la conoscenza di sé gratuitamente. Il filosofo sa che la verità dell’essere, nel suo ricco manifestarsi nelle cose del mondo, può risultare velata e che quindi va ricercata con pazienza e con metodo[i]. Il filosofo, con i suoi paradossi, mira proprio a questo: a mostrare come ciò che in apparenza sembra semplice e scontato, ad un esame più profondo risulti complesso ed anche talvolta contraddittorio. In latino la parola “verità” deriva da “verum”, che significa “il fatto reale”: per gli antichi romani, quindi, la verità sembrerebbe darsi dalla naturale coincidenza del discorso con il fatto. Nei greci, invece, la parola verità si esprime con “a-letheia” e significa “disvelamento di ciò che è nascosto”: i greci sembrano dirci che non è sempre facile far coincidere ciò che si dice o si pensa riguardo a qualcosa con ciò che questa cosa è. L’essere autentico si copre di molteplici, talora ingannatorie, sembianze e va scoperto. Forse è per tale prudenza innata nel linguaggio ionico che la filosofia nacque in Grecia e che, anche dopo che la civiltà greca “occupò” Roma, non ci sono stati filosofi romani originali.

2. Ricerca della verità motivata continuamente dallo stupore. Nel dialogo platonico “Teeteto”, Socrate richiama il mito di Iride, dea della conoscenza e figlia di Taumante, il dio dello stupore, per fondare in questo peculiare sentimento umano la filosofia: “Teeteto: ‘Sono straordinariamente meravigliato di quel che sia l’apparirmi davanti di tutte queste cose; e talora, se mi ci fisso a guardarle, realmente ho le vertigini’Socrate: ‘Amico mio, non mi pare che Teodoro abbia giudicato male la tua natura. Ed è proprio del filosofo quello che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofo che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante (Colui che si stupisce) non sbagliò, mi sembra, nella genealogia’”.

Thauma”, la parola greca per “stupore”, “sgomento”, indica un alto grado di turbamento dell’anima: davanti ad un evento inatteso e meraviglioso, in quel momento noi perdiamo la consueta consapevolezza e siamo come pietrificati, abbiamo le vertigini. Non si dà voglia di conoscenza, o filosofia, senza passare attraverso quella passione che è lo stupore. Questa è forse la primigenia sensazione provata dall’autocoscienza ancora confusa d’un infante, il cui primo logos, quando diverrà capace di minimamente articolare una parola, sarà: perché? Poi, man mano che la visione del mondo e della sua cornucopia si accresce, i “perché” del bambino diventano sempre più frequenti; e solo col passare degli anni (ed il sopraggiungere degli affanni dello studio, del lavoro, della famiglia), nell’adulto si diradano nell’assuefazione o scompaiono nella noia, salvo riapparire eccezionalmente di fronte ad un fatto del tutto inatteso. Il filosofo, invece, per sua fortuna, si affaccia alla finestra del mondo sempre con gli occhi di un bambino: non si abitua mai allo spettacolo del policromo multiforme apparirgli degli enti, né si accontenta di contemplarlo, ma vuole conoscerne le cause; e ha sete di sapere i fini che si proposero quelle cause; e perché quei fini e non altri; … fino alla domanda più fondamentale di tutte le domande: perché c’è qualcosa in generale, piuttosto che niente?

Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire” (Qohelet). Quando un filosofo finisce di meravigliarsi, quando ha perduto la gioia dello stupore davanti alla varietà cangiante delle manifestazioni dell’essere, quando pensa di averne imbrigliata l’infinita ricchezza nel suo “sistema filosofico”, allora non è più un filosofo, ma è diventato un professore di filosofia, un impiegato pubblico pagato dai contribuenti per comunicare ai giovani studenti la sua “verità”, la quale non è la realtà quotidianamente rivissuta nello stupore infantile, ma la rappresentazione personalmente codificata della propria esperienza ormai giunta al termine.

3. Ricerca della verità attraverso la dialettica. La molteplicità sempre presente nella storia di correnti filosofiche contrapposte è per me la prova più evidente dell’infinita ricchezza dell’essere, delle innumerevoli prospettive da cui esso può venire ammirato e dell’impossibilità della ragione umana a “comprenderlo” interamente, afferrandolo e contenendolo dentro di sé. Non c’è nessun grande filosofo, nemmeno tra i più lontani nei loro “sistemi” dalla mia visione del mondo[ii], in cui io non abbia trovato intuizioni geniali perennemente vere. La molteplicità del pensiero filosofico non è una manifestazione della miseria della filosofia, ma della ricchezza dell’essere.

Invece, G. W. Leibniz (1646-1716), che oltre a molte altre cose era un matematico ed un filosofo, si doleva (come tutti coloro che anche oggi, per questo motivo, antepongono la scienza naturale alla filosofia…) che tra i filosofi non vigesse la stessa concordia che tra i matematici ed immaginò di risolvere la questione

<!--[if !supportLists]-->·         <!--[endif]-->con la creazione di un linguaggio universale (“Characteristica universalis”) che, come quello della logica e della matematica, fosse libero da omonimi, sinonimi ed altre possibilità di fraintendimento del significato dei termini; e

<!--[if !supportLists]-->·         <!--[endif]-->con la costituzione di un gruppo di regole sintattiche di composizione e deduzione delle frasi (“Calculus ratiocinator”) che, ancora come accade in logica ed in matematica, servisse a trasformare il ragionamento filosofico in calcolo e ad evitare liti verbali inutili.

Una volta costruiti l’una e l’altro, scrisse il pensatore tedesco in un famoso passo, “non ci sarà più maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra due persone che fanno un calcolo aritmetico. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro piace, un amico): calcoliamo!” (“Scritti di Logica”).

Negli anni trenta del secolo scorso, il più grande logico di tutti i tempi insieme ad Aristotele, Kurt Gödel, dimostrò un teorema della logica formale per il quale il calcolo proposizionale del prim’ordine (dove i quantificatori[iii] lavorano sugli elementi del sistema di riferimento, ma non sulle sue parti) è consistente e completo: ciò significa che un discorso composto di proposizioni di questo semplice tipo è formalizzabile e calcolabile, come un’espressione algebrica. E, pertanto, anche eseguibile da un computer. Ma…, purtroppo per Leibniz, appena si passi alla logica del second’ordine (che poi coincide col linguaggio scientifico, per non dire del linguaggio parlato), interviene un altro teorema più recente della logica formale a dichiarare l’intraducibilità di quella proposizione in un algoritmo eseguibile da un calcolatore.

L’ideale di Leibniz è dunque un’utopia irrealizzabile nel linguaggio parlato e nelle stesse scienze naturali.

Dovremmo allora, in nome dell’unanimità e del leibniziano ecumenismo del pensiero unico, rinunciare alla parola viva ed immediata, quella che è coincisa con l’“evento improvviso” (I. Tattersall) dell’apparizione del simbolo nella specie terrestre Homo sapiens e si esprime ogni giorno nella vita reale vissuta dagli umani? o sono comunque possibili nel linguaggio parlato descrizioni del reale tendenzialmente completeorganicheprofonde e coerenti?

Certo, come ci ha insegnato Aristotele, c’è un logos raziocinante che analizza e classifica: esso appartiene alle scienze naturali ed ha per risultato una conoscenza specializzata, vale a dire: la conoscenza di un ente da uno specifico punto d’osservazione. La conoscenza che ci dà questo logos analitico risulta tanto più precisa quanto più è specialistica, come dire: più mi avvicino ad un oggetto da un punto di osservazione, più questo si riduce nelle sue qualità che riesco ad afferrare ad alcune poche, le “affezioni” quantificabili (Galileo). Questo logos scientifico celebra nelle applicazioni della tecnica moderna il suo maggiore trionfo.

Ma c’è un altro logos, da cui il precedente deriva ed è alla fine giudicato: è il logos dialettico, il discorso sul processo del pensiero, anzi il processo stesso del pensiero nella sua immediatezza. Questo appartiene alla filosofia. L’esempio più semplice di dialettica, che abbiamo appreso dai greci, dalla lettura dei dialoghi di Socrate nei libri di Platone e da Aristotele, è ogni autentica conversazione, di un’anima con se stessa o tra due anime, nella quale per mezzo delle parole la vita stessa si riversa come un fiume. Parla Socrate: “Il pensare è un ragionamento che l’anima fa con se stessa su ciò che ella viene esaminando. Bada, come un ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l’anima, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversa con se medesima, interrogando e rispondendo, affermando e negando” (Platone, “Teeteto”; evidenziazione mia).

La dialettica è un pensare al ritmo di domande e risposte, ipotesi e tesi, inspirazioni ed espirazioni, distruzioni e creazioni. Nella dialettica ogni oggetto viene esaminato dai più diversi punti di vista, per ogni argomentazione (“tesi”) riguardante una prospettiva si considera anche la validità dell’argomentazione opposta (“antitesi”), e poi si fa “sintesi” degli opposti in una proposizione che non è mai finale, ma punto di partenza di un ulteriore esame dialettico. (La procedura dialettica si svolge nel botta e risposta anche di commenti in questo blog, quando il dialogo è sincero e libero da troll ed intrusioni OT…)

La dialettica non è mai generata dallo sdoppiamento tra la realtà e la parola, tra la vita ed il pensiero, come accade sempre invece, necessariamente, nel logos analitico delle scienze; ma è la capacità d’interpellare e rispondere. Ancora Socrate: “E quello che sa interrogare e rispondere non lo chiami dialettico?” (Platone, “Cratilo”). Né la dialettica si riduce ad astratto esercizio logico della ragione, ma sempre inerisce alla rivelazione stessa, per mezzo della parola, della verità che è vita. La dialettica è la ragione che mira a partecipare alle infinite sfaccettature dell’essere. Nel “Fedro” Platone assimila la dialettica a due procedimenti contrapposti ma complementari: il primo, scrive Platone, è “abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché, definendo ciascun aspetto, si attinga chiarezza intorno a ciò di cui si intenda ogni volta insegnare”; l’altro “consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio”.

La dialettica è organizzazione logica dello stupore dell’osservatore davanti alle cose.

4. Conoscenza dell’essere nella sua interezza. L’Universo (fisico-mentale-logico) non è una polvere di sabbia, non è un insieme di monadi non interagenti; ma è una struttura organica dove ogni ente, anche piccolo, è connesso ed interdipendente con ogni altro, fosse più piccolo ancora ed il più lontano da quello nello spazio ed il più remoto nel tempo. Nelle scienze naturali, invece,l’avanzamento non può prescindere dalla specializzazione che è focalizzazione sull’oggetto isolato dai “disturbi esterni”, e ciò per definizione del processo pensante del logos analitico (anche se tra le diverse scienze oggi s’invoca una maggiore interdisciplinarità rispetto alla babele specialistica, perché ogni singola scienza ed ogni tecnologia potrebbero trarre vantaggio dall’interazione reciproca). La filosofia, al contrario, adotta un approccio olistico verso le domande suscitate dall’essere, che invitano l’osservatore estasiato a focalizzare l’attenzione non sul singolo ente, ma sui processi e sulle profonde interconnessioni tra più enti; ed evita la semplificazione (che è regola nelle scienze naturali) di modellizzare la soluzione di un problema complesso entro quegli schemi analitici che trascurano tutta una serie di “qualità secondarie” (le “essenze”) dell’ente[iv]. Quest’attività filosofica di collegamento ed unificazione, che è l’aspetto precipuo della razionalità umana, del “logos” (dal verbo greco “legein”: legare, raggruppare, ridurre ad uno), viene perseguita nel suo metodo dialettico: “La prova più importante se la natura di qualcuno sia dialettica o meno consiste nella prova di tale capacità di sentire non solo il molteplice nell’uno, ma anche, al contrario, l’uno nel molteplice, la visione del molteplice come della singolarità. […] Perché chi è capace di una visione integrale è dialettico, e chi non lo è, no” (Platone, Repubblica).



 

Sito a cura dell'A.I.S.O. Associazione Italiana Studi sulle Origini - aggiornato il 31/01/2014 

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