Nel
novembre del 1859 il celebre naturalista inglese Charles Robert Darwin
(1809-1882) pubblicava a Londra The Origins of the Species by Means of Natural
Selection, ovvero L’origine delle specie per selezione naturale, opera nella
quale esponeva per la prima volta la propria teoria sull’evoluzione.
Secondo
Darwin, le specie si sarebbero trasformate progressivamente nel corso delle ere
soprattutto nell’intento di adattarsi ai cambiamenti del proprio ambiente
naturale ed evitare, così, il rischio di estinzione. Ma la scottante questione
dell’origine animale dell’uomo non veniva affrontata.
Tuttavia,
nel 1868 seguiva La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico
e nel 1871 sarebbe uscita un’altra opera, intitolata La discendenza
dell’uomo e la selezione sessuale, in cui Darwin indicava l’Africa quale
culla dell’umanità, preconizzando inoltre lo sterminio delle «razze selvagge
della Terra» da parte delle «razze umane civilizzate». Infine, l’ultimo
lavoro notevole del positivista inglese fu il libro su L’espressione delle
emozioni nell’uomo e negli animali, apparso nel 1872.
L’“agnostico”
Darwin (amato da Karl Marx proprio perché aveva inferto a Dio «un colpo
mortale») poneva in tal modo le fondamenta per affrancare dalla natura divina
la nascita di tutte le creature viventi, proponendo una tesi “casuale”,
costituita dall’intervento di mutevoli condizioni climatiche, di habitat e di
relativi bisogni crescenti, i quali avrebbero condizionato quelle specie viventi
che si sarebbero dimostrate capaci di mutare insieme a tali elementi e, quindi,
di vincere la lotta per la sopravvivenza.
L’oscuro
naturalista di Down portava così a termine il compito che gli era stato
assegnato. Così infatti afferma il genetista Giuseppe Sermonti, il più
autorevole rappresentante internazionale dell’antievoluzionismo scientifico e,
in generale, della riflessione critica sulla scienza moderna fin da quando, nel
1971, pubblicò per l’editore Rusconi il saggio, davvero controcorrente, Il
crepuscolo dello scientismo.
Sermonti
sostiene che alcuni personaggi avrebbero precedentemente ingaggiato Darwin allo
scopo di elaborare una teoria materialista sull’origine della vita,
assicurandogli notevole fama e un rapido successo editoriale. Si sarebbe
trattato d’individui che agivano per conto di un fantomatico Club X,
costituitosi ufficialmente a Londra nel 1864. Tale associazione pare fosse
solita riunirsi prima dei meeting della Royal Society per discutere
gl’indirizzi politico-culturali e mediatici che avrebbe dovuto imboccare la
società britannica. La prima edizione de L’origine delle specie si esaurì in
un solo giorno , dopo un iniziale scherno piuttosto generalizzato. In soli dieci
anni Darwin si aggiudicò il consenso dell’ortodossia scientifica del tempo.
Il Club X aveva insomma raggiunto il proprio obiettivo e mantenuto le promesse.
I
turbamenti di un naturalista
Per
secoli, o per millenni, nessuno aveva mai notato le “prove schiaccianti”
fornite da Darwin, anche se le aveva davanti agli occhi.
Poi,
improvvisamente, tutte quelle “verità segrete” sono state finalmente
“esposte in evidenza” e dalla zolla sarebbero emerse le risposte che da
tempo si attendevano. Sono, cioè, venuti alla luce i resti di una realtà
ancestrale per troppo tempo occultata e rimossa mentalmente.
Le
prove su cui tali riletture della storia umana si fondano sono peraltro alcuni
resti fossili che costituirebbero gli anelli di congiunzione di una catena
virtuale, la quale condurrebbe in linea retta dagli esemplari più primitivi del
genere dei primati fino all’uomo.
Vano
il domandarsi perché – se tali teorie fossero realmente attendibili – a
parità di latitudine, condizioni climatiche e ambientali, e via discorrendo, è
possibile trovare “evoluti” esemplari di homo sapiens sapiens accanto a
babbuini e a scimpanzé, ma in circolazione non s’incontra alcun “uomo di
Neanderthal” o “di Cro Magnon” o “di Steinheim”.
Com’è
stato autorevolmente osservato, l’estrema rarità delle forme intermedie,
anche nella documentazione fossile, continua a rivestire una sorta di “segreto
di casta” della paleontologia. Inutile cercare la ragione dell’estinzione
degli esemplari delle fasi intermedie, ma più che altro superfluo giacché
l’incontestabilità del dogma darwinista è contenuta in quei pochissimi resti
fossili a cui si è fatto cenno. Talmente rari da tormentare perfino lo stesso
Darwin.
L’uomo-scimmia
fai-da-te
Molto
meno turbati appaiono, invece, i suoi più tardi epigoni ed emulatori. Tutti
presi dal contendersi a vicenda la palma dell’ortodossia piuttosto che quella
dell’originalità, producendo semplici varianti sul tema, sfugge ai loro occhi
la beffa dell’artista (così come sfuggì quella delle teste di Amedeo
Modigliani ad affermati critici d’arte), giacché, se la principale
occupazione è quella di dividersi in mille rivoli, di fronte alla necessità di
difendere il contestato cardine dogmatico le truppe sparpagliate riacquistano la
monolitica compattezza d’una testudo romana.
D’altronde,
come dubitare di fronte ad un eoanthropus Dawsoni, meglio conosciuto come
“uomo di Piltdown”, che deteneva tutte le caratteristiche necessarie per
rappresentare il classico caso da manuale. Due crani con caratteri marcatamente
primitivi, una mandibola nettamente scimmiesca, un canino e un molare vennero
portati in superficie fra il 1909 e il 1915.
Nel
frattempo, quell’“uomo” veniva valutato positivamente da alcuni presunti
specialisti e, pertanto, inserito come dato certo e acquisito in numerose
pubblicazioni di prestigio, quali per esempio la famosa Enciclopedia Treccani
che ne forniva ampie descrizioni. Purtroppo, però, dopo quasi quarant’anni
dal ritrovamento dei frammenti presso l’omonima località del Sussex
orientale, nel 1953 una commissione di scienziati dimostrò che si trattava di
una bufala clamorosa.
Se
qualcuno fosse tentato di pensare a un errore di quest’ultima équipe di
studiosi ci ripensi: il falsario, infatti, ha già raccontato tutto e la
Treccani si è vista costretta a rettificare definitivamente alla pagina 351
della terza appendice (1949-1960), spiegando come il famoso reperto di Piltdown
altro non fosse se non il «prodotto di una mistificazione». Il cranio era,
infatti, un fossile umano di epoca neolitica (quindi relativamente recente); la
mandibola apparteneva a un giovane orango morto pochi anni prima, a cui erano
stati limati i denti per farli sembrare umani; anche il canino era stato limato,
al fine di applicarlo alla mandibola; e il pomello di articolazione (condilo)
era stato spezzato di fresco nell’intento di adattare la mandibola al cranio.
Il tutto era stato poi usurato artificialmente e colorato chimicamente per
simulare l’effetto del tempo.
I
cannibali dagli occhi a mandorla
Un
altro caso palese d’interpretazione abusiva è rappresentato dal cosiddetto
sinantropo od homo pekinensis. Unicamente per il fatto che le rimanenze ossee di
tale scimmia – fino ad allora totalmente ignota agli zoologi – furono
ritrovati insieme ai residui di utensili e di focolari preistorici, si volle
automaticamente dedurne che si trattasse delle spoglie del loro artefice, ovvero
di un essere umano, sebbene i resti dello scheletro in questione si trovassero
chiaramente mischiati a quelli di animali da preda. Il cranio, inoltre,
presentava le medesime perforazioni osservate in casi analoghi, dove
l’espediente si era reso necessario allo scopo di prelevarne il gustoso
cerebro. Così, pur di non dover concludere la cosa più ovvia, cioè che il
ritrovamento altro non riguardava che una preda di uomini preistorici, gli
scienziati annunciarono che i cosiddetti homines pekinenses si erano addirittura
divorati a vicenda.
Da
circa sei anni sull’autorevolissima Boston Review del Massachusetts Institute
of Technology (MIT) infuriava una polemica assolutamente devastante per la
dottrina darwinista quando improvvisamente, sul numero del novembre 1999, la
rivista National Geographic pubblicò con enfasi la foto di una lastra minerale
nella quale si vedeva impressa l’immagine di un teropode pennuto. «È la
prova che gli uccelli si sono evoluti da questi antichi rettili», esultava
troppo frettolosamente il biologo Barry A. Palevitz nell’articolo di tono
sensazionalistico che accompagnava la presunta scoperta. Il rettile piumato
ridava così smalto alla logora teoria evoluzionista.
Il
darwinismo, infatti, è talmente in declino oltreoceano che in numerosi Stati
dell’Unione nordamericana si è perfino chiesto e ottenuto che il suo
insegnamento venga soppresso dalle scuole o, perlomeno, presentato come semplice
ipotesi in alternativa ad altre, di cui si deve dare notizia allo stesso modo.
Per rendersi conto delle enormi difficoltà che la “teoria della scimmia”
sta attraversando in ambiente scientifico, basta fare un rapido giro su Internet
e constatare di persona quanti siti ospitino tesi critiche, inserendo in un
qualunque motore di ricerca parole-chiave come “creazionismo”.
Finalmente
scoperto l’‘uccellosauro’, dunque, il creazionismo sarebbe stato sconfitto
definitivamente.
Acquisito
il posto che gli spettava nello schema darwiniano di discendenze, allo snodo
evolutivo fra rettili e uccelli, il “nuovo” animale è venne battezzato con
un’altisonante denominazione latina, come d’uopo: archaeoraptor
liaoningensis. Di lì a poco, tuttavia, si sarebbe amaramente appurato che il
supposto fossile altro non era se non l’ennesimo falso, composto da due
differenti resti (di un uccello e di un sauro) incollati assieme, con abilità
asiatica, per opera dei poverissimi contadini cinesi che vivono nella provincia
di Liaoning, i quali sfruttano e vendono sul mercato nero i fossili di un ricco
giacimento locale.
Il
falso composto era stato offerto al titolare di un piccolo museo privato nello
Utah durante una fiera di trouvaille paleontologiche, tenutasi nel febbraio del
1999 nello Stato dell’Arizona, presso la città di Tucson.
Già
in precedenza si era cercata questa tanto sospirata prova della discendenza
degli uccelli dai rettili preistorici. Del resto, la teoria darwinista parlava
chiaro: tutte le forme viventi della terra avevano subito evoluzioni clamorose,
adattandosi all’ambiente circostante. Da qualche parte sarebbero quindi pur
dovuti saltare fuori anche gli elementi che confermavano la veridicità di
quelle stravaganti idee.
Illusionismi
e prestidigitazioni
In
realtà, già nel lontano 1957, lo studioso nordamericano Douglas Dewar nel
libro The Transformist Illusion – pubblicato a Murfreesboro, in Tennessee,
dalle DeHoff Publications – osservò che tutta la teoria sulla graduale
evoluzione delle specie, facente capo a Darwin, si fonda su di una madornale
confusione tra “specie” e “subspecie”.
A
suo avviso, le singole specie non soltanto sarebbero fra loro separate da
differenze abissali, ma non esisterebbero neppure forme che accennino a una
qualche possibile connessione tra i diversi ordini di esseri viventi, come i
pesci, i rettili, gli uccelli e i mammiferi. Non era immaginabile nella maniera
più assoluta che l’uno potesse essere nato dall’altro. Anche il celebre
fossile denominato archaeopteryx, frequentemente addotto quale esempio di membro
intermedio fra un rettile e un uccello, è in realtà un autentico
rappresentante di quest’ultima categoria animale, nonostante alcune singolari
caratteristiche – come le unghie al termine delle ali, i denti nelle mascelle
e la lunga coda con le piume diramate – potessero comprensibilmente a prima
vista fuorviare.
Gli
studiosi moderni più seri e scrupolosi, ormai, rigettano completamente la tesi
dell’evoluzione della specie, o si limitano a mantenerla in maniera
provvisoria esclusivamente quale mera “ipotesi di lavoro”.
Le
più recenti scoperte in materia di paleontologia, sedimentologia, chimica,
biologia molecolare e genetica hanno infatti smontato, pezzo per pezzo, il
castello di carta su cui si fondava l’evoluzionismo darwinista.
Del
resto, non solo tutte le forme animali conosciute avrebbero avuto origine, quasi
contemporaneamente, durante il periodo dell’“esplosione cambriana”, ma le
ricerche più recenti hanno dimostrato l’incredibile complessità anche di
quegli organismi che i vari Piero
Angela si ostinano a definire “semplici”.
Il
molteplice dell'infinitamente piccolo
La
microscopia elettronica ha, infatti, messo in risalto come i processi che si
svolgono all’interno dell’essere monocellulare siano di una molteplicità
inimmaginabile. Inoltre, come ebbe a riconoscere, già nel 1977, perfino lo
stesso professor Stephen Jay Gould, docente di Geologia e Zoologia presso la
prestigiosa Harvard University, nonché darwinista eterodosso e marxista
dichiarato, «le testimonianze fossili non supportano in alcun modo il
cambiamento graduale».
Sulla
medesima linea, il geologo David Schindel, professore alla Yale University, il
quale, in un articolo apparso nel 1982 sulla rivista Nature, rivelò che
l’ipotizzata graduale «transizione dai presunti antenati ai discendenti […]
non esisteva».
In
definitiva, si può affermare che – alla prova dei fatti – la teoria
darwiniana si è rivelata un semplice prodotto della propria epoca. L’inglese
vittoriano si sentiva intimamente superiore al resto del mondo e il darwinismo
sembrò fornire una sanzione scientifica a tale convincimento.
La
vicenda del Club X e il simultaneo sviluppo di un insidioso “darwinismo
sociale” sul piano filosofico-politico la dicono lunga sulla reale valenza di
quella “selezione naturale” contemplata nell’evoluzionismo.
Una
volta acquisita questa teoria da parte della comunità scientifica, si è quindi
imboccata una pericolosa via che gli attuali studiosi temono però di
abbandonare poiché, forse, ritengono che ciò equivarrebbe, di fatto, a
decretare un fallimento di cui potrebbe risentire tutta la classe degli
scienziati contemporanei.
Se
così fosse, si tratterebbe di un fatto gravissimo, poiché darebbe conto della
debolezza – camuffata con l’arroganza – da cui la scienza è affetta
oggigiorno. Diversamente, si attendono spiegazioni plausibili sul perché non si
sia ancora avviato un dibattito serio e approfondito anche in Italia, e per
quale strana ragione ci si ostini a presentare un semplice mito come verità
acquisita.
Perché la
teoria di Darwin altro non è che un mito, il quale – come tutti i miti –
tenta di soddisfare il bisogno di rispondere ad alcuni dei quesiti fondamentali
che, sin dalla notte dei tempi, tormentano l’uomo: “chi siamo?”, “da
dove veniamo?”. Davvero arduo appare il fornire una spiegazione convincente
con le sole armi della ragione; schiere di filosofi ci hanno provato, fallendo
ogni volta miseramente. Charles Darwin fu uno di loro.
(articolo tratto da IL
DOMENICALE anno 2 n. 40 del 04/10/2003)
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