La principale
difficoltà che si incontra opponendosi alle teorie evoluzioniste, e in
particolare al neo-darwinismo, è la loro scoraggiante banalità. Qualunque teoria
che proponga il Caso come generatore di tutti i viventi (la Selezione Naturale
non aggiunge nulla al caso) è semplicemente ridicola e, in termini statistici,
assolutamente “impossibile”. C’è solo da chiedersi come una tale teoria abbia
potuto sostenersi per un secolo e mezzo, ritrovando vigore dopo ogni guerra
vinta dai conterranei di Darwin. Si attaglia alla situazione un pensiero di John
Stuart Mill: «Appare spesso che un convincimento, universale durante un’epoca...
in un’ epoca successiva diventi un’assurdità così palpabile che l’unica
difficoltà è quella di cercare di capire come mai una simile idea possa essere
apparsa credibile».
Un’altra
difficoltà nel discutere di evoluzione sta nel capire di che cosa si sta
parlando. È ben noto che nelle prime edizioni dell’ Origine delle Specie, Darwin
non usò mai il termine “evoluzione”, mentre usò quello di “creazione” o di
“origine”. La semplice ragione era che per “evoluzione” s’intendeva, alla metà
dell’Ottocento, lo svolgimento di un programma, e il centro del pensiero di
Darwin, e dei suoi epigoni, era che la Natura non avesse programmi o progetti, e
le specie si trasformassero senza alcuna predeterminazione o prospettiva: per
l’appunto, a caso. Se vogliamo trovare una definizione di Evoluzione, dobbiamo
ricorrere ai vocabolari letterari, dove si leggono frasi come questa: «Un
processo di cambiamento continuo da una condizione inferiore, più semplice o
peggiore ad uno stato superiore, più complesso o migliore» (Webster). Se
cerchiamo una definizione di Evoluzione in un testo scientifico, si parla di
tutt’altro. Helena Curtis, nel glossario della sua rinomata “Biologia”,
definisce così l’evoluzione: «Processo che da una popolazione, in conseguenza di
produzione di variazione genetica e dell’emergenza delle varianti per opera
della selezione naturale, ne fa discendere un’altra con caratteristiche
diverse». Che quest’altra popolazione sia superiore, più complessa o migliore,
non importa; è sufficiente che sia variata, fosse anche inferiore, più semplice
o peggiore. È giusto che il pubblico sappia che quando gli scienziati, e
segnatamente i biologi molecolari, parlano di evoluzione, stanno discorrendo
d’altro. Di qualcosa che non ha nulla a che fare con il concetto comune di
evoluzione e poco persino con Darwin.
Un’impossibilità
matematica
L’affermarsi
della evoluzione molecolare ha segnato l’“eclissi” degli organismi. Abbandonate
le forme viventi, i biologi sono rimasti affascinati da codici e testi genetici,
perdendo di vista gli organismi e dandosi questa regola: «Solo nel DNA, tutto
nel DNA, nient’altro che nel DNA». Si sono presi cura delle vicende molecolari
delle specie, preferendo ignorare che queste poco o nulla avessero a che fare
con la storia della loro morfologia. Aveva scritto - con rispettabile franchezza
- il grande biologo molecolare R.E.
Dickerson nel
1972: «Quanto più ci si avvicina al livello molecolare negli organismi viventi,
più simili questi appaiono e meno importanti divengono le differenze tra, per
esempio, una mosca e un cavallo». E François Jacob, nel 1977: «Non sono le
novità biochimiche che hanno generato la diversificazione degli organismi ... ».
Precisa poi che non è la differenza nei costituenti chimici «ciò che distingue
una farfalla da un leone, una gallina da una mosca o un verme da una balena».
Ciò non toglie che gli evoluzionisti sono oggi quasi esclusivamente
bio-molecolari, si occupano di organismi astratti e volentieri lavorano su
organismi virtuali residenti nei personal computer (come il famoso Richard
Dawkins).
Raffard de
Brienne, in quest’opera sulla fine dell’Evoluzione, si occupa dell’evoluzione
come la intende il pubblico e come la si intendeva anche negli ambienti
scientifici, fino all’inizio del Novecento. Ci risparmia le molecole, la cui
“evoluzione” non può, nella definizione della Curtis, essere contraddetta, e
affronta i problemi mai risolti dell’origine della vita, delle specie,
dell’uomo. L’origine della vita dalla non-vita per un accidente occorso miliardi
di anni fa è così improbabile da essere assolutamente impossibile. «I matematici
- conclude R. de Brienne - ci obbligano a dedurre l’impossibilità
dell’evoluzionismo». L’origine della cellula da un assemblaggio di molecole è
ancora più improbabile, se esiste qualcosa di più improbabile dell’impossibile.
Gli ipotetici protobionti, immaginati da alcuni protobiologi «sono simili alla
cellula quanto le bolle d’acqua possano essere simili all’occhio umano».
Altrettanto impossibile è l’origine delle specie e il loro graduale e
progressivo svilupparsi l’una dall’altra. Il fenomeno comporterebbe il
ritrovamento tra i fossili di un gran numero di forme intermedie ma queste non
si trovano! Sono i famosi anelli mancanti, che seguitano imperterriti a mancare.
L’esempio più classico, cui l’Autore fa riferimento, è quello degli equidi. Nel
1874 il paleontologo russo V 0. Kovalevsky abbozza una successione evolutiva che
prevede quattro generi in successione cronologica: Paleotherium >
Anchitherium > Hipparion > Equus. Nel 1918 R. Lull traccia un tronco che
va dall’Eohippos (in luogo del Paleotherium) all’Equus, da cui Anchitherium e
Hipparion si distaccano come rami laterali. «L’indagine geologica, scrive Ch.
Déperet negli stessi anni, ha definitivamente accertato che non esistono
passaggi graduali tra queste specie». Nel 1951, G. G. Simpson traccia un albero
che ha l’aspetto di un cespuglio, che è ormai composto di linee parallele nella
genealogia di J. H. Quinn. «La famosa successione graduale dei cavalli -
conclude R. Fondi (1980) - consiste, in realtà, di un insieme di elementi
spazio-temporali staccati gli uni dagli altri».
Il passaggio
dalla scimmia all’uomo incontra due ostacoli: il primo è la difficoltà di
spiegare la modifica contemporanea della stazione, del cervello, della faringe,
del sistema nervoso centrale. Il secondo è l’esistenza insormontabile di una
barriera fra le facoltà intellettuali della scimmia e dell’uomo. E poi, dove
sono gli anelli intermedi? Qui incontriamo un esempio classico della frode
scientifica, il cranio di Piltdown. Scoperto all’inizio del secolo, questo
cranio presentava una volta spaziosa combinata con una mascella scimmiesca.
Benché, secondo le teorie in voga, l’anello mancante doveva avere un cervello
ancora piccolo associato a una mascella umanoide, esso fu acclamato come la
dimostrazione inequivocabile della discendenza dell’uomo dallo scimmione e
tenuto per quasi cinquant’anni in mostra in una vetrina del Museo delle Scienze
di Londra. Quando si cominciò ad impiegare il carbonio 14 per la datazione dei
fossili, esso fu subito applicato all’uomo di Piltdown. Risultò un falso palese:
una mascella di gorilla contemporaneo era stata incastrata nel cranio di un uomo
medievale. Il falso era rimasto lì per mezzo secolo, davanti agli occhi di
scolari e professori, e nessuno se ne era accorto. A questo punto che fanno i
sostenitori di una teoria che ha perso nel ridicolo il suo monumento storico?
Chiedono scusa, e con la testa chinata cambiano mestiere, o, per lo meno teoria?
Nulla del genere. Piltdown, (la prova essenziale dell’evoluzionismo, secondo
Teilhard de Chardin) resta a dimostrazione della capacità di autocritica della
scienza , che va in cerca, invano, di altri anelli mancanti. Sui libri di testo
scolastici rimane intatta la vignetta dello scimmione che via via si solleva
fino a diventare un gentleman.
A mio giudizio
(cfr. Giuseppe Sermonti, La luna nel bosco, Rusconi, Milano, 1985), la
discendenza dell’uomo da uno scimmione è un antico mito (altri miti e favole
parlano della discendenza della scimmia dall’uomo), che ha l’unica base nella
somiglianza morfologica e molecolare tra l’uomo e gli scimmioni senza coda
(pongidi), e nel pregiudizio gnostico che il bestiale preceda l’umano. In realtà
i paleoantropologi hanno smesso di parlare dell’antenato scimmiesco, da quando è
risultato che nella morfologia, nell’embriologia, nell’andatura, nella biologia
molecolare, l’uomo è molto più “originario” e lo scimmione “derivato”, per tacer
del fatto che fossili di scimmioni non si trovano oltre qualche centinaio di
migliaia di anni fa, e ominidi fossili datano da quattro, cinque o più milioni
di anni. Scrive Alan R. Templeton: «Il camminare sulle nocche - non il bipedismo
- è la novità evolutiva nella locomozione dei primati e... molti caratteri
ominidi sono primitivi mentre le controparti nelle scimmie africane sono
derivate». Ma non diciamolo ai bambini delle elementari, cui seguitiamo a
mostrare una scimmia china appoggiata sulle nocche che gradualmente si erige a
formare l’uomo. Potrebbero accorgersi che il Re è nudo.
L’evoluzionismo,
particolarmente quello neo-darwiniano, nonostante troppe volte smentito (e
questo libro ne offre una ponderosa casistica) seguita a sedere tranquillo sugli
scranni del sapere e a far mostra di sé sulle targhe di molti illustri istituti
in tutto il mondo. Con esso è invalso negli ambienti scientifici uno stile
accademico elusivo e manicheo, che è andato a detrimento di tutta la scienza. Mi
piace citare, in conclusione, una frase di W. H. Thompson, studioso
d’evoluzione, che fu incaricato a stilare l’introduzione a una edizione
centennale dell’Origine delle Specie di Darwin: «Questa situazione, dove uomini
si riuniscono alla difesa di una dottrina che non sono capaci di definire
scientificamente, e ancor meno di dimostrare con rigore scientifico, tentando di
mantenere il suo credito col pubblico attraverso la soppressione della critica e
l’eliminazione delle difficoltà, è anormale e indesiderabile nella scienza».
Il libro di
Raffard de Brienne merita una speciale considerazione, perché emerge da questa
situazione.
Giuseppe
Sermonti
Professore Ordinario di
Genetica
(articolo
tratto da IL DOMENICALE anno 2 n.40 del 04/10/2003)
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