Le
mutazioni nel genoma batterico non spiegano l’evoluzione
Nel
1988 Richard Lenski ha iniziato il più grande esperimento
evolutivo mai fatto, seminando 12 colture di Escherichia coli,
il colibatterio che vive nell’intestino umano, registrando i
cambiamenti verificatisi nei batteri nel corso di 20 anni in oltre 40
000 generazioni, congelando dei campioni per ulteriori studi. Abbiamo
già commentato il rapporto più importante, pubblicato
nel 2008 sulla rivista PNAS, (vedi
http://www.origini.info/articolo.asp?id=187).
In quell’articolo Lenski aveva
dichiarato che studierà nei dettagli anche i cambiamenti
avvenuti nel genoma, ed è stato di parola, pubblicando
recentemente su Nature un articolo dal titolo (“Evoluzione
del genoma e adattamento nell’esperimento a lungo termine con
Escherichia coli”, nel quale riassume i dati emersi dal
sequenziamento dei genomi batterici. Si tratta di un lavoro imponente
che ha visto protagonisti dei ricercatori di alcuni centri di alta
specializzazione di Yuseong, Corea. (Jeffrey E.
Barrick, Dong Su Yu, Sung Ho Yoon, Haeyoung Jeong, Tae Kwang Oh,
Dominique Schneider, Richard E. Lenski & Jihyun F. Kim, “Genome
evolution and adaptation in a long-term experiment with Escherichia
coli”. Nature 2009;461:1243–1247, 29
October 2009).
Quali sono i
risultati? Durante le prime 20 mila generazioni si sono verificate 45
mutazioni, che hanno coinvolto circa 1% del totale di 4 000 geni del
colibatterio. All’inizio alcune delle mutazioni hanno conferito
al batterio delle caratteristiche ritenute di valore adattativo, ma
“l’evoluzione adattativa” poi si è
rallentata e infine arrestata senza ulteriori vantaggi per il
batterio. Dopo la ventimillesima generazione è comparsa una
mutazione nel gene mutT che controlla la riparazione del DNA,
cioè il dispositivo che difende il genoma dalle mutazioni. A
questo punto il genoma è “impazzito”, accumulando
altre 600 mutazioni, ma gli autori non dicono quale è loro
valore evolutivo, che del resto dichiarano già esaurito.
L’osservazione
in condizioni di laboratorio ha dei limiti, ma è l’unica
possibile per monitorare i cambiamenti nel genoma, dato che in natura
la selezione naturale tende ad eliminare le diversità e
conservare solo il ceppo (o i pochi ceppi) “selvatico”.
Escherichia coli in particolare conserva intatte le
caratteristiche del “tipo selvatico” sin dalla sua
scoperta nel lontano 1885. Anche il concetto di adattamento in
laboratorio è diverso, e la “fitness” si misura
semplicemente con la sopravvivenza nell’ambiente costante o in
riferimento a specifiche funzioni che in natura hanno spesso scarsa
rilevanza. Ciò non toglie che lo studio offre una opportunità
unica di chiarire alcuni problemi concettuali dell’evoluzione
biologica, come ad esempio quale sia la correlazione tra i
cambiamenti nel genoma e l’evoluzione adattativa
dell’organismo.
Secondo i modelli
matematici della genetica delle popolazioni, che è parte della
teoria sintetica dell’evoluzione (R.A. Fisher, 1930; S. Wright,
1932), l’accumulo progressivo di mutazioni porterebbe ad un
migliore adattamento della specie. Le osservazioni hanno invece
smentito il modello teoretico: mentre l’accumulo di mutazioni è
lineare, l’adattamento ha avuto una brusca decelerazione,
mostrando andamento circolare. Come dire che più di tanto il
batterio non cambia. L’ipotesi più plausibile per
spiegare il fenomeno è che la maggior parte delle mutazioni
sono neutrali, ovvero né benefiche né nocive, per cui
non influiscono sull’adattamento della specie. Questa è
nota come la teoria dell’evoluzione “neutrale” di
Kimura In modo indiretto l’evoluzione “genomica” si
accorda anche con la teoria degli equilibri punteggiati di Gould &
Eldredge (1977): durante l’accumulo di mutazioni neutrali si ha
“stasi” evolutiva, poi compare qualche mutazione benefica
e l’evoluzione fa un passo avanti.
Le mutazioni
benefiche sono state sorprendentemente poche e costanti nel tempo, e
con il tempo hanno esaurito l’effetto benefico. “Il
rapporto tra l’evoluzione genomica e adattativa” –
scrivono gli autori – “è complesso e risulta
contro intuitivo persino in ambiente costante”. Nel suo
commento editoriale (pp. 1219-21), Paul B. Rainey specifica che la
discordanza tra i cambiamenti nel genoma e l’evoluzione
dell’organismo batterico “ci lasca in una posizione
scomoda (..) la complessità del rapporto tra tempo e modalità
dell’evoluzione a livello del genoma e dell’organismo
provoca un certo disagio e consiglia cautela nel derivare le modalità
dell’evoluzione dell’organismo dalla velocità
dell’evoluzione del genoma”. Come dire che nel genoma si
verificano mutazioni, ma non è chiaro il loro impatto
sull’evoluzione dell’organismo
Per
riassumere, le mutazioni riguardano pochi geni. La maggior parte dei
cambiamenti sono neutrali, mentre quelle benefiche sono poche,
limitate come tipologia, e il loro vantaggio evolutivo si esaurisce
con il tempo. Alla metà dell’esperimento una mutazione
guasta il gene che controlla la riparazione del DNA, e allora il
numero delle mutazioni aumenta di 15 volte, ma gli autori non dicono
quale sia stato l’impatto di questa mutazione sull’evoluzione
dell’organismo. Si tratta di una mutazione estremamente dannosa
che nell’uomo causa alcuni tipi di cancro famigliare. I
cambiamenti verificatesi nel genoma non portano da nessuna parte, i
loro effetti sono “contro intuitivi”, cioè
paradossali per coloro che vedono la natura in chiave evoluzionista;
smentiscono i modelli teoretici classici della teoria dell’evoluzione
e semmai spiegano la stasi evolutiva piuttosto che il processo
evolutivo. Si tratta di uno studio importante con osservazione di ben
40 000 generazioni, che per la specie umana equivalgono ad un periodo
da uno a tre milioni di anni. Ma i risultati – dal punto di
vista della conferma o della migliore spiegazione dei meccanismi
della supposta evoluzione – sono piuttosto deludenti. I
cambiamenti nel genoma appaiono sempre più circoscritti
all’interno di ciascun tipo di organismo e non una fonte di
trasformazione in un altro tipo.
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