BIBBIA
E CULTURA
La
Bibbia non è solo Testo Sacro
di
Mihael Georgiev
“Bibbia
e cultura” è il titolo dell’interessante libro
di Fernando De Angelis. Egli rintraccia l’influenza della
Bibbia in tutti i campi dell’attività umana –
evoluzione, storia, economia, geografia. Ma è di un’altra
cosa che io vorrei parlare. Non di quello che la Bibbia ci ha
lasciato, ma di quello che è stata durante il lungo
cammino della civiltà occidentale e quello che potrebbe ancora
dare. In più, non parlerei di fede ma di cultura. La mia
idea non è originale. In Italia esiste Biblia, una
Associazione laica di cultura biblica riconosciuta con decreto del
Presidente della Repubblica del 25 novembre 1989 (vedi
http://www.biblia.org).
Secondo
Harold Bloom 70% delle opere d’arte e letterarie del passato
fanno riferimento esplicito alla Bibbia. Il fatto che la storia –
da non confondere con la cronaca degli eventi – è spesso
narrata meglio nelle opere letterarie che nei testi di storia. Questo
da solo basterebbe per ritenere utile – come fa l’Associazione
Biblia – che si introduca una qualche forma di
insegnamento della Bibbia nella scuola.
Purtroppo
insieme all’avanzamento della cultura “laica”, che
spesso altro non è che il termine politicamente corretto di
ateismo, non solo è scomparso il significato della Bibbia come
messaggio di salvezza, ma anche il suo significato storico e
letterario. È ammesso da tutti gli addetti ai lavori che,
visitando le nostre splendide pinacoteche (che secondo UNESCO
contengono 60% del patrimonio artistico dell’umanità), i
ragazzi non sono in grado di comprendere il significato e il
messaggio trasmesso dalle opere d’arte, ma al massimo e forse
in pochi, di giudicarle solo in chiave di prospettive, chiaro-scuri,
tecniche originali e scuole di pittura. Peggio che giudicare le moto
e le automobili solo per la vernice e gli elementi decorativi della
carrozzeria.
Capisco
la vanità di ciascun autore contemporaneo – pittore o
scrittore che sia – di voler essere a tutti i costi originale,
e lo scopo si raggiunge tanto più facilmente quanto meno si
conoscono le rispettive opere del passato. Ma se questo soddisfa la
vanità degli autori, siamo sicuri che è anche un bene
per i pubblico? Io non sono sicuro. Sono però sicuro che la
conoscenza della Bibbia – nei suoi soli aspetti storici,
letterari e, per così dire normative – avrebbe un
impatto positivo sulla società. A prescindere dal fatto che
una parte rilevante del codice penale è in realtà
emanazione di buona parte dei dieci comandamenti.
Al
di fuori della Bibbia non è possibile parlare di civiltà
occidentale e di radici giudaico-cristiane. È vero che la
Bibbia è stata usata come pretesto non solo per unire, ma
soprattutto per dividere. Curiosamente, ad usarla oggi così
sono autorevoli esponenti del mondo laico piuttosto che religioso,
cercando di dividere, ad esempio, gli appartenenti alle religioni che
fanno riferimento al Vecchio Testamento da quelli che si riferiscono
anche al Nuovo. Ho scritto anche al Nuovo. Spiegatemi voi il
paradosso che a separare il Nuovo dal Vecchio Testamento siano ora
alcuni esponenti del mondo laico e culturale piuttosto che quello
delle religioni. I credenti hanno almeno la scusa di separarsi
perché ciascun gruppo religioso può credere che la
“giusta dottrina che porta alla salvezza” è solo
quella del proprio gruppo. Ma la cultura laica che non partecipa alla
separazione per motivi di fede e dovrebbe essere più libera di
percepire il messaggio storico-letterario della Bibbia e riconoscere
il valore unificativo del testo che risalta le radici comuni e non le
differenze confessionali.. E invece ho l’impressione che certe
posizioni laiche altro non sono che la passiva registrazione di un
dato di fatto: l’incomprimibile tendenza degli uomini di
avversarsi, scontrarsi e uccidersi nel nome di qualsiasi differenza
tra le rispettive opinioni. Come i due popoli descritti da Jonathan
Swift, che si fan guerra per decenni a motivo dei due diversi modi di
rompere le uova: dalla parte acuta o rotonda. Da intellettuali
impegnati mi aspetterei qualcosa di più. Ad esempio
sottolineare che motivi come quello delle uova siano una cosa
pretestuosa e irrilevante da raccontare per ridere insieme e non da
mantenere come segno di ineluttabile, necessaria e opportuna
separazione.
La cultura,
tradizione e identità di un popolo sono un bene da
salvaguardare. Le recenti proposte di introdurre l’insegnamento
dell’islam nelle scuole pubbliche incoraggiano la
se-gregazione, ovvero la dis-gregazione della società
italiana, e nella migliore ipotesi rischiano di portare ad un
comunitarismo (addirittura promosso e finanziato dallo stato), che è
la versione moderna e politicamente corretta di razzismo. Sarebbe
meglio, se possibile, insegnare le proprie radici comuni, ed il testo
di riferimento, almeno per le religioni abramitiche, c’è
ed è proprio la Bibbia. Lasciando alle famiglie e ai
maggiorenni la libera scelta delle di associarsi a quel gruppo
religioso che secondo loro – dal punto di vista della fede –
interpreta meglio il comune Sacro Testo. In questo senso la proposta
di insegnare non religione ma storia delle religioni è di per
sé condividibile. Ma se non realizzabile, è meglio
lasciare le cose come stanno. La Chiesa cattolica alla quale fa
richiamo spirituale e culturale la nazione italiana ha il diritto e
le carte in regola per gestire l’ora di religione. Parola del
rabbino capo Riccardo Segni e di molti come me che, pur non essendo
cattolici, vogliono conservare ed esaltare piuttosto che declassare
il patrimonio culturale italiano, costringendolo ad un’assurda
“par condicio” con gruppi minoritari che spesso
rappresentano non la propria cultura d’origine, ma alcune
particolarità tribali o settari presenti all’interno di
essa.
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