Il darwinismo: successo mediatico e crisi scientifica
di una ideologia
di Salvatore Pisu e Giuseppe Castello
Abbiamo ricevuto il seguente elaborato e con piacere
lo presentiamo ai lettori.
Prof. Pisu è medico e docente di Bioetica
all’Università di Cagliari
Dott. Castello è medico chirurgo, specialista
in urologia e andrologia e lavora a Cagliari
1. L’evoluzionismo è oggi quasi
pacificamente considerato come il più grande tentativo di dare
una spiegazione razionale del fenomeno dei viventi, della loro
origine e della loro varietà. Da quando Charles Darwin
ipotizzò l’origine comune delle specie per
trasformazione e selezione, e i risultati della biologia molecolare
sembrarono attribuire alla mutazione genetica casuale l’origine
della trasformazione, innumerevoli ricerche delle moderne scienze
biologiche, quali genetica, biochimica, anatomia, embriologia, hanno
scavato nell’intimo dei viventi rilevando le tracce di una
profonda affinità fra tutte le specie. Ma di fronte a nuovi e
aspri dibattiti sull’opportunità di escludere
dall’insegnamento altre visioni concernenti l’origine
della vita e delle specie, giudicate dal mondo evoluzionista come
antiscientifiche e prive di fondamento razionale, riteniamo sia
opportuno porsi la domanda se la rivendicazione del darwinismo
soddisfi i criteri che i suoi sostenitori richiedono alle altre
teorie per essere scientificamente legittimate. Il darwinismo è
una vera e propria scienza a sé stante? Esistono manuali di
scienza evolutiva che riportino leggi specifiche, sperimentalmente
confermate e codificate? Oppure si tratta, fra gli ipotizzabili
modelli interpretativi dei fenomeni biologici, di quello che ha avuto
maggior successo? In questo lavoro riteniamo utile tentare di testare
l’effettiva consistenza scientifica di una teoria che assegna
ad ogni scoperta ottenuta con le scienze biologiche un valore in
senso evoluzionista. Grazie al diffusissimo credito di cui gode nel
mondo biologico, il darwinismo non ha potuto che rafforzarsi e
guadagnare sempre maggior successo anche in settori della vita non
strettamente naturalistici, come quelli economici, politici,
sociologici. Noi intendiamo mostrare come la base di questa solida
convinzione scaturisca da un’arbitraria visione del mondo
vivente piuttosto che da una vera e propria dimostrazione della
realtà delle cose. Per ora anticipiamo il sospetto che la
debolezza dell’evoluzionismo sia un paradossale ed inevitabile
riflesso del suo apparente successo: una volta ammessa l’ipotesi
evolutiva sulla generazione delle specie, qualsiasi fenomeno
osservato dalla biologia, dalla fisiologia, dalla genetica, dalla
biochimica potrebbe accordarsi nel quadro generale dell’ipotesi
stessa, parte per la natura propria dei fenomeni in esame, parte per
l’estrema variabilità ed adattabilità della
teoria, lungi però dal costituire questo accordarsi una reale
prova scientifica.
2. Se si ammette che tutte
le specie siano imparentate, cioè che derivino le une dalle
altre a causa della selezione che l’ambiente impone alle
varianti casualmente mutate premiandole o punendole, qualunque
istantanea della struttura dei viventi potrà essere
portata per confermare tale visione. In effetti tutti i viventi sono
costituiti dalla stessa stoffa, la materia vivente a livello
cellulare e subcellulare possiede le medesime caratteristiche. Le
principali vie metaboliche, o le grandi famiglie dei geni regolatori,
come quelli omeotici che governano la disposizione dei segmenti
corporei, insomma i dinamismi cellulari nel loro complesso sono
sostanzialmente universali in ogni tipo cellulare. Se ad esempio si
trasporta il gene regolatore per il posizionamento sull’asse
corporeo degli occhi in un moscerino cieco, il moscerino riacquista i
suoi caratteristici occhi sfaccettati anche se il gene proviene dal
DNA di un gatto.
Non è allora
illegittimo che gli evoluzionisti abbiano visto nelle somiglianze la
conferma di una parentela, lasciando alle sole mutazioni accidentali
e vincenti le differenze da cui scaturirebbero le diverse specie. Da
qui logicamente nascono i concetti di adattamento, per cui
ciascuna specie sarebbe costruita su misura per e dall’ambiente
in cui vive; di fitness, cioè di efficienza
riproduttiva di una specie portatrice di un certo corredo genetico
rispetto alle altre; di selezione (stabilizzante, direzionale,
disruptiva) cioè di pressione ambientale che modulerebbe più
o meno intensamente i patrimoni genetici (o genotipi) attraverso una
scelta imparziale dei fenotipi di maggior successo.
Tuttavia, nonostante tali tentativi di codificare
l’evoluzione con termini dal sapore scientifico, il risultato
che si ottiene non elimina il fatto che i semplici dati biologici, le
istantanee dei viventi, di per sè non possono nè
avvalorare nè smentire l’ipotesi di una parentela tra i
viventi da un progenitore comune, così come un istantanea del
sole in linea con l’orizzonte non ci può dire se siamo
all’alba o al tramonto. Infatti, data la somiglianza persino
ultrastrutturale tra i viventi, qualsiasi fenomeno naturale per sua
natura potrebbe anche essere letto secondo l’interpretazione
generale dell’evoluzione. Per contro, ad esempio anche una
teoria creazionista potrebbe, e forse a maggior ragione, come vedremo
più avanti, considerare inversamente le somiglianze come
dovute alle universali e necessarie proprietà dei viventi e le
differenze come differente origine. In questa diversa ottica
l’adattamento non sarebbe altro che la condizione nativa della
specie quale frutto dell’interazione col proprio habitat, e la
selezione il ruolo dell’ambiente nativo e delle sue possibili
variazioni nel proteggere, minacciare o favorire modificazioni
formali all’interno della specie, mentre la fitness
consisterebbe nel tipo di rapporto che la specie intraprende con la
variabilità dell’ambiente che ne permette la
riproduzione.
3. Se da un lato dunque il
quadro darwiniano complessivo non può che risultare sempre
confermato, ma sulla base di una univocamente interpretata
somiglianza biologica tra i viventi, dall’altro quando la
teoria evoluzionistica da sguardo generale ha tentato di entrare nei
dettagli, sono sorti numerosi problemi, e la teoria si è
dovuta adattare ai dati ottenuti. Si sono ipotizzati eventi di
trasformazione che nessuno ha mai visto all’opera,
giustificandone l’inesistenza come solo apparente in quanto
distribuiti su scale temporali di milioni di anni. Ad esempio secondo
la logica evolutiva che tenterebbe di riannodare le relazioni di
parentela tra le specie, che viene chiamata filogenesi, si
racconta che i moderni cetacei deriverebbero da mammiferi terrestri,
i quali cinquanta milioni di anni or sono avrebbero cominciato a
vivere nell’acqua, adattandovisi già dopo dieci milioni
di anni. Ma come mai nei rimanenti quaranta milioni di anni le
inevitabili mutazioni casuali non sono state selezionate
dall’ambiente marino sino a generare delle specie totalmente
adattate alla vita acquatica, e ancora oggi i cetacei respirano
l’aria coi polmoni, sono omeotermi e allattano al seno la loro
prole, come tutti i mammiferi della terraferma? Allo stesso modo si
predisse il ritrovamento di fossili di specie di congiunzione fra
quelle derivate, ma i paleontologi dopo innumerevoli scavi e lavori
di interpretazione non hanno raggiunto alcuna significativa certezza,
e i fossili ritrovati o sono identici alle specie esistenti oggi, o
appartengono a specie estinte la cui somiglianza con le attuali pone
lo stesso problema interpretativo della somiglianza per connaturalità
piuttosto che per parentela appena accennato. Qualche volta si sono
smascherate autentiche frodi come quella dell’uomo di
Piltdown,
mostrato al mondo come autentico anello di congiunzione tra l’uomo
e i suoi progenitori scimmieschi, risultato poi essere un reperto
costruito ad arte, dunque falso, ma conservato per anni quale prova
inconfutabile del darwinismo in un importante museo fino al momento
della scoperta dell’inganno. Per non parlare di risvolti oggi
incredibili come quello della triste vicenda di un pigmeo – Ota
Benga – costretto ad esibirsi in uno zoo a dimostrazione
dell’esistenza di un elemento di transizione vivente dalla
scimmia all’uomo.
Al contrario le uniche prove
certe sono quelle che hanno mostrato come le specie dei cosi detti
pre-uomini o ominidi - australopitechi, homo habilis – i cui
reperti fossili sono stati fino ad oggi ritrovati non siano altro che
particolari specie di scimmie oggi estinte (ne fa fede ad esempio per
gli australopitechi la posizione dei canali semicircolari
dell’orecchio interno, tipica dei quadrupedi),
per di più contemporanee alla specie umana dai cui fossili
sono addirittura precedute. L’uomo sarebbe stato contemporaneo
se non antecedente ai suoi supposti antenati. È anche per
questi motivi che alcuni fra i più autorevoli evoluzionisti,
tra cui S.J. Gould,
hanno rivisto le loro convinzioni e ritengono che l’uomo non
sia comparso due milioni di anni or sono per progressivi gradi di
mutazione da progenitori scimmieschi (homo habilis), ma la sua
origine sarebbe improvvisa come uno scherzo della natura, un
esperimento mostruoso di successo, da un antenato comune a scimmie e
uomini, cinque, sei, forse anche venti milioni di anni or sono. Qui
il darwinismo ha dovuto modificarsi e creare una versione alternativa
in cui l’evoluzione non è più concepita come
continua e progressiva ma discontinua, punteggiata, per salti o
catastrofi, spostando inoltre la comparsa dell’uomo ad un
periodo ben più lontano e privo di qualsiasi documentazione
fossile dei suoi possibili progenitori.
4. Dunque anche l’evoluzionismo non sfuggirebbe
alla propria logica interna finendo per adattarsi alle
difficoltà minanti la propria coerenza interna. Si potrebbe
analizzare l’evoluzione del darwinismo e vedere come questo si
sia adattato continuamente alle scoperte. Si scoprirebbe che quanto è
rimasto di più condiviso tra gli evoluzionisti, spesso divisi
da forti diatribe interne a causa di differenti vedute su piccoli
dettagli, non è nulla più della ipotesi iniziale e
generale di Darwin, quella per cui si suppone che le specie siano tra
loro imparentate, e che a generarne la diversità siano i casi
della natura attraverso la pressione selettiva dell’ambiente.
Dunque l’impasse per l’evoluzionismo deriva dal
fatto che i dati che si usano per confermarlo non potrebbero fare
altrimenti in quanto letti solo in quel modo. Ciò non è
sufficiente a dirimere la domanda se le specie siano simili perché
imparentate, o perché i diversi individui che le compongono
sono contraddistinti dalla medesima natura, costituiti dalla stessa
materia vivente. Come l’evoluzionismo potrà liberarsi
anche solo dal sospetto di aver rincorso un miraggio attribuendo
sicuro rapporto di parentela a quella che potrebbe essere una
semplice comune appartenenza alla categoria dei viventi? Di per sé
le scienze biologiche non possono far di più che confermare la
somiglianza tra i viventi. Ma nulla possono dire nell’interpretazione
di tale somiglianza, se si tratti di una parentela o dell’essenza
dei viventi in quanto tali. Si è già detto che così
come sono, i dati della biologia potrebbero praticamente essere
compatibili con una teoria che pensasse alle diverse specie come
create separatamente sin dall’origine, generate non da una
stessa matrice cellulare casualmente mutata, ma da diverse “madri”
unicellulari, in assenza di trasformazioni casuali dall’una
all’altra, in base ad un disegno di sviluppo individualizzato.
Come per la visione evoluzionistica classica, anche in questo caso
tutti i fenomeni biologici fino ad oggi riscontrati dall’osservazione
sperimentale verrebbero confermati senza richiamarsi ad alcuna
parentela tra le diverse specie, ma semplicemente constatando la
comunanza della materia vivente di cui tutte sono costituite, e
riferendo le differenze alla differenza tra le madri primigene. In
sintesi, la scelta tra l’evoluzionismo e altre interpretazioni
dei fenomeni viventi sarebbe come quella di chi deve scegliere tra
vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, dipende cioè
più da una visione della vita, da predisposizioni culturali e
dalla storia personale e dagli interessi di chi sceglie. Dunque
l’evoluzionismo vive una duplice crisi: finché rimane
sul piano della visione generale, tutti i fenomeni naturali sembrano
accordarsi con essa, ma per via di un possibile ma irrisolvibile
equivoco per cui potrebbe essere letta come parentela la sostanziale
somiglianza per natura delle diverse specie viventi. Ma quando si
scende nei particolari la dottrina darwiniana è costretta a
fare i salti mortali per inseguire i fenomeni ed adattarsi
continuamente con sempre nuove versioni, spesso l’una in aspro
contrasto con le altre, in una vera e propria lotta per la
sopravvivenza.
5. Il vantaggio selettivo dell’evoluzionismo, il
suo successo e la sua diffusione oltre il mondo accademico attuale
deriverebbero allora non più dalla compatibilità della
sua visione generale con i dati biologici (cosa scontata per la
natura dei dati stessi, e come abbiamo visto, tallone d’Achille
ineliminabile della teoria), ma da una scelta meta-scientifica,
basata su presupposti culturali, sociali e persino religiosi spesso
funzionali a determinate scelte storiche, politiche ed economiche
(malthusianismo, eugenetica, discriminazioni razziali) quando non
filosofiche (ateismo, nichilismo). Ne sono un esempio gli
innumerevoli e fideistici ricorsi all’intervento del cieco
caso. Ad esempio poiché non si vede alcuna legge
chimica o fisica all’origine del codice genetico per cui a
ciascuna tripletta di basi azotate del DNA corrisponde un certo
aminoacido, ma una semplice corrispondenza di tipo convenzionale come
quella del codice Morse per la comunicazione telegrafica, per
escludere una causa intelligente del fenomeno si imputa a pura
casualità l’esistenza di tale universale corrispondenza,
e si chiama incidente congelato la stabile organizzazione del
DNA e della sua trascrizione. La continua enfasi posta dagli
evoluzionisti sul caso come unico arbitro dei naturali destini
nelle questioni di cui non si è ancora scoperto un evidente
fattore causante, ha molto dell’atteggiamento che essi si
propongono di combattere nei “creazionisti”, che spesso
vengono accusati di tirare in ballo l’intervento divino ogni
qual volta non sono in grado di trovare una spiegazione esauriente
dei fenomeni biologici, quando non di credere in racconti
naturalistici indimostrabili, come quelli della creazione biblica,
come se la Bibbia avesse le intenzioni di un trattato biologico.
6. Ma se tutto questo
dovrebbe spingere a riprendere e ad approfondire le ragioni anche di
coloro che criticano o respingono la teoria darwiniana per
verificarla nei dettagli, un ulteriore duro colpo per l’evoluzionismo
sta venendo proprio dalle scoperte più recenti della biologia
molecolare. Oggi si sa infatti che è alquanto improbabile che
il fenomeno delle mutazioni genetiche casuali possa avere il peso di
condurre alla generazione di una specie da un’altra. Si è
infatti scoperto che la cellula sa come mutare il proprio patrimonio
genetico intenzionalmente. Essa infatti lo attiva e disattiva là
dove serve in base alle necessità metaboliche, lo sa plasmare
in risposta a stimoli esterni e interni, può costruire
proteine con diverse funzioni utilizzando il medesimo gene (così
come il gene lettera può costruire la proteina lettera
dell’alfabeto o la proteina lettera da spedire), può
costruire più proteine con un solo gene (il gene parlamento
può costruire la proteina parlamento, ma anche le
proteine parla, mento e lamento).
Si ipotizza persino di possibili funzioni oggi ancora non conosciute
del DNA cosiddetto spazzatura, aggettivo coniato dai primi
genetisti, dal sapore forse volutamente sprezzante per distinguerlo
dal DNA codificante, quasi a stigmatizzarne l’inutilità
per evidenziarne la causa come sempre in un caso cieco e non in una
operazione prevista dall’intelligenza cellulare. A confronto
con le enormi possibilità a cui può attingere la
cellula dal suo patrimonio genetico sul fronte della mutazione voluta
e controllata, ben misera cosa appaiono le rarissime mutazioni
accidentali, una su un miliardo,
quelle che l’evoluzionismo chiama a guida cieca, protagonista
casuale delle speciazioni. La cellula invece mostra di avere su se
stessa e sull’organismo da essa costituito un progetto, un
disegno più ampio di quello che uno dei dogmi della biologia,
oggi ampiamente sfatato – un gene, una proteina – voleva
imporle. E questo disegno, sul cui studio è sorta tra l’altro
l’epigenetica, cioè lo studio delle interazioni
dell’ambiente cellulare sul patrimonio genetico, ha un impeto
generativo così forte che sembra coincidere con quello della
stessa vita.
7. Superata la teoria
evoluzionistica nella sua versione gradualista o continua, sia a
causa dell’assenza di elementi fossili che la comprovassero,
sia, come vedremo in seguito, a causa degli enormi tempi necessari al
suo verificarsi, di gran lunga superiori a quelli oggi misurati in
base alla presunta età della terra, secondo la teoria
evoluzionistica nella sua versione più moderna conosciuta come
quella degli equilibri punteggiati o saltazionista, che sembra aver
preso oggi il sopravvento su quella gradualista, le mutazioni
accidentali silenti e innocue si accumulerebbero nel DNA di uno o più
individui della specie fino ad un punto di non ritorno, oltre il
quale la somma delle mutazioni diverrebbe catastrofica per il nuovo
organismo che perderebbe la capacità di riprodursi con i
simili dei suoi antecessori e fonderebbe così una nuova
specie. Qui il caso avrebbe lo stesso peso di quello di un
ramo caduto sul percorso di un maratoneta ben allenato. Rametto dopo
rametto sul percorso si accumulerebbe una catasta di legno. Ecco che
il maratoneta ad un certo punto invece di evitarla preferisce
passarci sopra: il maratoneta cesserebbe la sua gara per dedicarsi ad
un nuovo sport, il salto in lungo. Ma oggi una conoscenza sempre più
fine dei meccanismi biologici dimostra che l’accidentale viene
a interrompere, a bloccare, non a costruire. Inoltre la vita
cellulare non è mero determinismo subìto da una cellula
ostaggio di un DNA egoista regolato da un caso cieco, alla Dawkins,
ma, per ritornare al paragone sportivo, è piuttosto un
percorso studiato e recintato, dei giudici di gara, un premio
importante, degli atleti allenati e fortemente motivati, un servizio
tecnico efficiente, una organizzazione professionale: il rametto
verrebbe subito eliminato prima di costituire il minimo problema per
la gara. E anche se un corridore inciampasse in un rametto, si
tratterebbe di un fenomeno rarissimo che non incide sulle classifiche
mondiali dei maratoneti e tanto meno sull’origine di una nuova
disciplina sportiva. Lo stesso DNA non è tutto, nella cellula:
le proteine raggiungono la loro conformazione definitiva, quella che
tra le diverse possibili ne permette il corretto funzionamento, in un
momento successivo rispetto a quello della sintesi nei ribosomi.
Il DNA non sembra cioè responsabile della giusta e definitiva
conformazione, quella funzionale, quanto della “memoria”
della sequenza degli aminoacidi di cui è composta la proteina.
8. C’è ancora
molta ritrosia al lasciarsi guidare dalla complessità
finalistica
del disegno cellulare: perché non cercare
nelle pieghe di questo disegno complessivo l’intelligenza per
l’origine delle specie e della vita stessa, invece di cercare
ulteriori ma inutili prove della parentela tra i viventi? La
complessità di una cellula non è poi sostanzialmente
inferiore a quella di un animale pluricellulare quale ad esempio un
elefante. Nessuna macchina per quanto elaborata e complessa
progettata e costruita dall’uomo raggiunge un infinitesimo
della complessità di una singola cellula. Se una cellula
volesse mutare non necessiterebbe dunque del caso per adattarsi alle
condizioni ambientali. In realtà il disegno cellulare mira
alla stabilità ed alla integrità dei suoi componenti, a
riparare i danni ove si presentino (anche le mutazioni accidentali
vengono disinnescate) e con una precisione che ha dello sbalorditivo.
Inoltre la complessità cellulare, insuperato ostacolo tra
inorganico ed organico, non è certamente frutto di una lunga
evoluzione, dato che le più antiche cellule apparse sulla
faccia della Terra, gli archeo batteri, la cui comparsa è
fatta risalire da alcuni a tre miliardi di anni or sono, sono in
grado di vivere in condizioni estreme, ad esempio in soluzioni
acquose sature di sale, come Halobacterium, o in ambienti
esposti a temperature elevatissime, vicino a bocche eruttive sui
fondali oceanici, come Pyrolobus fumarii. Gli archeo batteri
inoltre sopravvivono in ambienti molto acidi e possono nutrirsi di
composti dello zolfo, tanto che per queste straordinarie capacità
sono denominati organismi estremofili. La loro repentina comparsa sul
pianeta sarebbe talmente incompatibile con i tempi richiesti da una
origine casuale, che qualche studioso, tra cui lo scopritore della
struttura fine del DNA, Francis Crick, ha preferito ipotizzare per
queste cellule una provenienza dallo spazio extraterrestre.
In ogni caso come si sia passati dall’assenza di vita a questi
formidabili organismi unicellulari rimane una delle questioni
insolute ma anche più stimolanti della biologia.
9. Basterebbe poi un solo
piccolo esempio a proposito dell’origine della vita per mettere
in crisi la concezione meccanicista dell’abiogenesi
darwinianamente intesa: è un dato di fatto che gli acidi
nucleici, il DNA e l’RNA, non si duplicano senza l’azione
enzimatiche delle proteine, e che le proteine a loro volta non
possono essere costruite senza gli acidi nucleici. Inoltre questi due
processi non possono avvenire senza una struttura cellulare completa,
la più semplice delle quali, osservata con lenti opportune,
appare come un laboratorio incomparabilmente più complicato,
integrato ed organizzato di qualsiasi macchinario mai costruito
dall’uomo. Si introduce qui il concetto della complessità
irriducibile, cioè dell’esistenza di un sistema
complesso, il vivente, in cui nessuna parte dell’organismo può
spiegarsi senza la compresenza delle altre nel tutto. È questo
il caso in cui non può esistere il codificante, il DNA, senza
il codificato, le proteine, e viceversa. Ed anche le recenti scoperte
delle possibilità dell’RNA di autocatalizzarsi,
cioè di fungere contemporaneamente da enzima e da sequenza
genetica, non sembrano altro che la semplice descrizione di una
funzione della molecola isolata piuttosto che la dimostrazione
dell’esistenza di un improbabile mondo a RNA, dato che
tale molecola ha necessità comunque di un contesto cellulare
per essere funzionale alla vita. Se tale è la legge del
vivente, o l’intero o nulla, potrebbe non essere irragionevole
affermare che la materia vivente sia un tipo di materia a sé
stante piuttosto che una spontanea e statisticamente improbabilissima
– secondo alcuni impossibile per natura – evoluzione dal
semplice al complesso, dall’inanimato all’animato. Sotto
questo aspetto il termine creazione appare più descrittivo di
questo tipo di realtà, di questo modo di essere, rispetto al
concetto di evoluzione, che per censurare gli aspetti irriducibili
delle realtà viventi, finisce per forzarne qualsiasi elemento
nelle rigide gabbie del determinismo e del meccanicismo. Da tale
forzatura scaturisce però talora qualcosa di molto più
ridicolo delle ingenue credenze che si voleva demitizzare: i geni,
nel segreto della cellula, dovrebbero stabilire e decidere e
determinare tutto, anche ciò che evidentemente non rientra tra
i caratteri somatici, fino alla bizzarra preferenza delle femmine
dell’uccello vedova per l’imponente ma
antiaereodinamica coda lunga del maschio.
Tale materialismo radicale infine rivela un limite dello scientismo,
e cioè che nessuna conoscenza può aver successo nella
pretesa di reggersi da sola ed autofondarsi.
10. Recentemente si è
scoperto che quasi tutti i tipi pluricellulari viventi sono comparsi
in un intervallo temporale così breve (su scala biogeologica)
che risulta impossibile attribuirne alle mutazioni casuali l’origine
gli uni dagli altri o di tutti da uno, soprattutto se si tiene
presente che in tempi anteriori la Terra si ritiene fosse popolata
soltanto da forme di vita unicellulari. Se per la comparsa di una
nuova specie di moscerino da una simile secondo l’orologio
molecolare dell’evoluzione occorrerebbero due o tre milioni
di anni,
non si capisce come in soli circa trenta milioni di anni, nel periodo
Cambriano, cinquecento milioni di anni or sono, siano comparse
improvvisamente forme viventi così numerose e anche
macroscopicamente complesse quali oggi ancora le conosciamo, alcune
di esse oggi estinte, altre ancora esistenti. Già all'inizio
di questo singolare periodo si incontrano fossili di 500 specie
diverse appartenenti a sette sottotipi diversi. Vi sono sia crostacei
che spugne, oltre a vermi, echini e meduse. Le differenze tra i
sottotipi erano già tanto nette da restare ancora tali ai
nostri giorni.
Cosa è accaduto in quel periodo? Come mai in un
solo centesimo del tempo in cui si suppone esista la vita sul nostro
pianeta sono comparse in modo definito esplosivo tutte le
principali forme di vita di cui è popolata la terra? Come
spiegare le proprietà di tantissimi viventi non inscritte nel
loro patrimonio genetico né utili per la loro sopravvivenza
(si pensi ai colori sgargianti di alcuni pesci, praticamente
invisibili nelle buie profondità degli abissi)? Come è
comparsa la prima cellula, dato che i suoi costituenti sono
coessenziali alla sua funzione ed esistenza, fenomeno che confuta la
credenza che i suoi elementi costitutivi semplici si siano aggregati
progressivamente fino a costituirla (non esiste né può
esistere una “mezza cellula”)? Come è comparso
l’uomo, con il suo corpo funzionalmente fragile, ma
paradossalmente unico vivente in cui la natura riflette se stessa,
dato che la sua origine appare come improvvisa e non sono state
registrate svolte graduali?
Queste domande, che il
grande genetista Dobzhansky, non certo in odore di creazionismo,
espresse come le supreme domande della biologia,
sono oggi più attuali che mai, ed aspettano una risposta che
gli evoluzionisti più onesti cominciano a comprendere non
essere quella per ora fornita dal darwinismo.
11. In sintesi: l’evoluzione sembra non aver
ancora fornito le prove della sua veridicità di spiegazione
scientifica dell’origine dei viventi e delle specie.
- Non esistono prove
genetiche: le uniche leggi della genetica, scoperte da Mendel,
riguardano l’ereditarietà dei caratteri e comprovano la
sostanziale stabilità delle specie e la trasmissione dei
caratteri che si possono mantenere inalterati a distanza di
indefinite generazioni.
- Non esistono prove
biologiche: nessun esperimento è mai riuscito a costruire un
vivente, neanche il più elementare come la cellula, né
partendo da costituenti inorganici né da elementi organici;
l’impossibilità della cosiddetta abiogenesi è
stata ampiamente e definitivamente dimostrata da Pasteur. Né è
mai stata osservata una trasformazione di un tipo di organismo in un
altro con struttura corporea e pool genetico diversi. L’evoluzionismo
cede all’errore di usare il fenomeno da dimostrare (il fenomeno
inconfutabile e sotto gli occhi di tutti della macro e micro
somiglianza fra le specie) per autoconfermarsi, dando per scontato ma
mai provando realmente la derivazione di una specie dall’altra,
solo poggiandosi qualche volta sulla variabilità peraltro già
esistente all’interno delle specie. Un tale tentativo di darsi
una base empirica è quanto accaduto ad esempio con un famoso
esperimento, spesso citato dai darwinisti, volto a spiegare il
fenomeno del melanismo industriale, dove è stato
provato che una sottopopolazione minoritaria di farfalle per il
colore delle ali può prendere il sopravvento sulla
maggioritaria al mutare delle condizioni ambientali, fenomeno per
altro normale in natura. Organizzato dai ricercatori come una prova
di laboratorio, tale esperimento però non evidenziò per
nulla la comparsa di una nuova specie ma semplicemente la variabilità
della prevalenza di una sottopopolazione o razza all’interno
della stessa specie, variabilità ovviamente correlata
all’habitat e a fattori extra-ambientali, in quel caso
l’inquinamento da smog.
- Non esistono prove fossili: nessuno ha mai trovato un
fantomatico anello mancante, né ha mai dimostrato la
discendenza l’una dall’altra di specie simili ma, come
nel caso eclatante dell’uomo, forse il più studiato, si
sposta il problema dell’individuazione di un progenitore comune
delle specie antropomorfe – ora sorelle, ora cugine –
sempre più lontano nel tempo rendendo la questione
sostanzialmente non indagabile né tantomeno verificabile
sperimentalmente.
12. In conclusione diversi sono i motivi per cui è
perlomeno scorretto definire la teoria evoluzionistica come
dimostrata scientificamente; sarebbe più giusto definirla una
suggestiva ipotesi non comprovata sperimentalmente, e come tale con
né più né meno forza dimostrativa di una ipotesi
creazionista. A rigor del vero dovremmo parlare di un ventaglio di
ipotesi, poiché la storia ha visto susseguirsi versioni sempre
più distanti e differenziate dell’assunto darwiniano. In
definitiva siamo davanti ad una costruzione e una trasformazione
continua del darwinismo, trascinato di qua e di là da
mutazioni nell'interpretazione dei dati o dal ritrovamento di dati
che non si accordano con le versioni precedenti. Molteplici le
discordanze, numerose le lacune, continue le smentite. E anche le
concordanze non fanno il gioco della teoria poiché
interpretabili anche in senso opposto. Nulla di verificato
sperimentalmente, nessuna legge razionalmente espressa ottenuta
induttivamente. È vero che intere schiere di scienziati,
biologi, paleontologi, genetisti, anche se non sempre in accordo e
qualche volta in palesi e aspre querelles, si sforzano nella
difesa a spada tratta della loro teoria rispedendo al mittente le
accuse, a loro dire frutto di ignoranza, di fideismo e di
arretratezza culturale. Ma nonostante la vivacità mediatica
che si traduce in influssi sui libri di testo e sulla
documentaristica ad uso televisivo, sotto gli occhi di tutti
l'evoluzionismo sta conoscendo un periodo di stallo scientifico e
sembra sopravvivere per inerzia culturale come è accaduto per
il mito dell’esistenza di razze superiori, concezione che un
tempo si cercò di avvalorare anche mediante studi biologici,
al fine di giustificare scientificamente lo schiavismo ed in seguito
eventi tragici come l’annientamento degli ebrei nella seconda
guerra mondiale. Oggi l’evoluzionismo è chiamato a far
da spalla ad una concezione meccanicista e nichilista dell’uomo,
che tende ad annullare il concetto di persona o perlomeno, oggi, a
limitarlo a chi possiede certe funzioni, per cui gli esseri umani
all’inizio embrionale della vita non sono ancora persone e
quelli alla fine o con una vita segnata dalla malattia non lo sono
più. Ed il suo successo nei salotti buoni delle università
e dei circoli culturali, alimentato probabilmente da frasi ad
effetto, per le quali noi uomini non siamo altro che aggregati di
molecole, e quanto all’origine, scimmie modificate,
contribuisce circolarmente alla sua sempre più ampia
diffusione (ma anche ad una certa confusione a riguardo del fenomeno
della vita e della morte).
13. Dobbiamo allora rassegnarci a tacere sulla
pseudoscientificità dell'evoluzionismo e lasciarci portare via
dalla corrente dominante almeno per ben figurare nei dibattiti e
guadagnare producendo testi scolastici scientifically correct?
La nostra risposta consiste nella proposta di una nuova ipotesi di
lavoro. Riteniamo cioè che possa tornare utile riprendere in
mano i dati, i viventi, e osservarli per quello che sono. Potrà
forse sembrare inizialmente ovvio, ma comprendere quale sia la natura
del vivente ci potrà aiutare nel comprendere l'eventuale
plausibilità dei poteri trasformisti che gli si attribuiscono.
La domanda è dunque se la natura dei viventi sia tale da
concordare con le ipotesi proposte. Sono ad esempio compatibili le
spiegazioni evoluzionista e quella dell’origine separata dei
diversi gruppi di viventi, con quella che è la stoffa stessa
della materia vivente? In questo caso il vero lavoro da fare non è
quello di prendere le difese di questa o di quella teoria, ma di
contribuire alla conoscenza di ciò che è realmente
l’organismo vivente, quali siano i dinamismi che lo
caratterizzano, che rapporto abbia con la realtà non vivente.
Il nostro contributo si deve porre nel cercare di comprendere il
significato dell’organismo, e quali siano le possibilità
funzionali correlate a questo singolare status. A
partire da ciò offrire elementi di fatto alla ricerca
dell’origine degli organismi e dell’origine delle
differenze fra essi, senza affrettare, magari per motivi ideologici,
conclusioni travestite da scienza ufficiale.
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